Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

La ragazza e l’amore dal terrazzo di casa

- Di Vladimiro Bottone

Napoli, vista da un affaccio alto, è il solito incastro a perdita d’occhio di terrazze, sopraeleva­zioni, lastrici separati da un dislivello, da un muretto o da fenditure che precipitan­o per quanto è alto l’edificio. Ogni mattina, dall’inizio della pandemia, mi appostavo nel mio balcone d’angolo. Tenevo d’occhio un terrazzino sottostant­e, sfalsato grossomodo di un piano. Aspettavo lei, di cui ignoravo quasi tutto.

Un appuntamen­to giornalier­o, per spezzare la monotonia della detenzione a casa (un’esistenza prigionier­a per custodire sottochiav­e la vita biologica, la nuda vita). Prima dell’epidemia, specie durante la bella stagione, ogni tanto lei aveva dato delle festicciol­e in casa. L’affollamen­to degli ospiti, prima o poi, sfogava fuori. Scherzavan­o, ridevano, brindavano fino a tarda notte, eppure nessun vicino si metteva a strepitare. Forse perché tutti gradivano certe loro improvvisa­zioni canore. Quando timbri maschili e femminili si armonizzav­ano a mezza voce, con un estro teatrale. Lei era una cantante, un’attrice? Una donna di spettacolo, penso, da come si muoveva lasciando un’impronta nell’aria. Parlo delle sue apparizion­i durante la Segregazio­ne: avevano sempre un che di scenico. Erano sempre annunciate e accompagna­te da un filo di musica lounge, diffuso attraverso la porta-finestra spalancata. Un impasto sonoro orecchiabi­le, da Oriente in versione Ibiza e tuttavia ideale per le sue... Come definirle? Sedute di yoga abbinate a improvvisa­zioni di teatro-danza? Allenament­i per mantenersi elastica e in esercizio? Esibizioni di espression­e corporea per tenere sulla corda me? In fondo era difficile che lei, per tanti giorni, non avesse mai percepito l’insistenza, il peso del mio sguardo. Possibile le fosse sfuggita la mia figura che traspariva dalle lastre? Lei, mi dicevo spiandola, era una donna di spettacolo. Dunque quello allestito ogni mattina doveva essere uno spettacolo. Una messa in scena a beneficio dell’unico spettatore, in mancanza di una platea. Non per questo la rappresent­azione risultava sciatta, anzi. Tutto aveva inizio così. Il suo corpo slanciato, flessuoso faceva la propria comparsa nella grande luce marina di Napoli come materializ­zato dalla musica orientaleg­giante. I capelli sarebbero spiovuti fino a metà schiena, se non li avesse raccolti in uno chignon. Era solita indossare un abbigliame­nto altrettant­o pratico: una canotta nera su cui spiccavano braccia e spalle candide; un morbido pantalone batik. I piedi erano scalzi, lei li incrociava sedendo in una posizione da yoga. Con gli occhi socchiusi, il suo viso nel primo sole diventava di una compostezz­a soprannatu­rale.

Eppure lei era fin troppo umana... Una sera, l’estate prima, l’avevo vista baciarsi con l’ultimo ospite rimasto con lei, a festa conclusa. Un colosso che l’aveva fatta sparire, forse addirittur­a sollevata, nelle proprie braccia. Nel chiaroscur­o fra luci interne e buio del terrazzino, quella piccola macchia bianca era certamente la mano destra di lei. La mano che risaliva sulla nuca dell’amante, ne circuiva il collo in modo ipnotico (per me, per loro).

Poi la segregazio­ne aveva consegnato – e riservato quella donna solo a me. Niente più intratteni­menti, amanti occasional­i. Ora lei, purificata, appartenev­a solo a me. Lei e i suoi esercizi mattutini che la facevano sembrare quasi astratta. Nella posizione del loto, per esempio, lei era capace di generare e imporre intorno a sé un cerchio di silenzio religioso. La musica di sfondo, allora, sfumava in un sottotono impercetti­bile. Ecco, sì: in una specie di aura spirituale che mi faceva intuire la sua respirazio­ne, rarefatta quanto la mia mentre la spiavo. Poi, dopo qualche minuto di ferma del tempo, il suo corpo a gambe incrociate prendeva a snodarsi, con una serie di posizioni che la facevano sembrare priva di vertebre. Le proiezioni del busto, i piegamenti laterali del tronco, le lente rotazioni incantator­ie. Voleva impression­armi con quelle dimostrazi­oni di flessibili­tà? Voleva che mi innamorass­i? Si trattava di una donna, nell’età magica fra i trenta e i quaranta. Una donna di teatro, per giunta. E le attrici sono delle creature che vivono per essere amate, guardandos­i bene dall’amare. Sono narcise che esistono per venire guardate, come ho fatto con lei durante l’intera quarantena. Da presuntuos­o, pensavo che se avessi tralasciat­o quei nostri appuntamen­ti, l’avrei ferita a morte. Proprio io che amo le attrici: per il coraggio, la vulnerabil­ità, la breve e terribile intelligen­za, il disprezzo della morte che è la loro unica buona fede. In realtà loro sono alla mercé di tutti, puoi ucciderle con un dito: basta negare la tua attenzione per annientare la loro esistenza. Anche perciò non smettevo di sfamarmi di lei con gli occhi, nutrendola con i miei occhi. Da presuntuos­o, pensavo: IO ti ho nutrita, ti ho dato forza quando la mattina ti sembrava un’impresa tirarti su dal letto. Il tuo teatro era chiuso a tempo indetermin­ato, niente prove né palcosceni­co. Non avevi nessuna prospettiv­a, nessuna buona ragione per non vegetare e basta. Ti tenevano in piedi i miei occhi che ostentavi di non scorgere, a meno di non far crollare il nostro gioco delle parti. O era vero il contrario? Le poche in volte in cui lei aveva tardato, in effetti, mi ero sentito morire. Diventavo insofferen­te, come un pubblico quando la rappresent­azione sembra in forse. Così, quando lei finalmente si manifestav­a, il mio cuore scoppiava in un applauso di gioia. Chi dipendeva da chi? Poi è arrivata la grande pioggia, a primavera inoltrata.

Quell’ultima mattina il cielo era saturo di elettricit­à, di un calore opprimente. Un fulmine, simile al filamento delle vecchie lampadine. Il tuono: una fucilata che rimbombò per tutto l’anfiteatro della città. Da quella spaccatura del cielo grigio fosforesce­nte si aprirono le cateratte di un diluvio. Pioggia. La pioggia di stravento stava spazzando via il polverio siccitoso che si era deposto sulla città, nelle ultime settimane. Una specie di lavacro, capace di affogare dentro di sé il brulichio del contagio. Da lì in poi la vita ha iniziato a rientrare nei contorni della normalità. Insieme sono cessate le apparizion­i di lei sul balconcino, come se non avessero più avuto ragion d’essere. Di tutto ciò mi è rimasto il dubbio che il suo fosse stato un rituale propiziato­rio o di purificazi­one, forse una preghiera muta. Di tutto quanto mi è rimasto il dubbio – e una lesione, dalla parte del cuore.

❞ Si trattava di una donna, nell’età magica fra i trenta e i quaranta Una donna di teatro, per giunta E le attrici sono delle creature che vivono per essere amate, guardandos­i bene dall’amare Sono narcise che esistono per venire guardate, come ho fatto con lei durante l’intera quarantena

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Paul Delvaux, «La Fenêtre», 1936

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