Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
La ragazza e l’amore dal terrazzo di casa
Napoli, vista da un affaccio alto, è il solito incastro a perdita d’occhio di terrazze, sopraelevazioni, lastrici separati da un dislivello, da un muretto o da fenditure che precipitano per quanto è alto l’edificio. Ogni mattina, dall’inizio della pandemia, mi appostavo nel mio balcone d’angolo. Tenevo d’occhio un terrazzino sottostante, sfalsato grossomodo di un piano. Aspettavo lei, di cui ignoravo quasi tutto.
Un appuntamento giornaliero, per spezzare la monotonia della detenzione a casa (un’esistenza prigioniera per custodire sottochiave la vita biologica, la nuda vita). Prima dell’epidemia, specie durante la bella stagione, ogni tanto lei aveva dato delle festicciole in casa. L’affollamento degli ospiti, prima o poi, sfogava fuori. Scherzavano, ridevano, brindavano fino a tarda notte, eppure nessun vicino si metteva a strepitare. Forse perché tutti gradivano certe loro improvvisazioni canore. Quando timbri maschili e femminili si armonizzavano a mezza voce, con un estro teatrale. Lei era una cantante, un’attrice? Una donna di spettacolo, penso, da come si muoveva lasciando un’impronta nell’aria. Parlo delle sue apparizioni durante la Segregazione: avevano sempre un che di scenico. Erano sempre annunciate e accompagnate da un filo di musica lounge, diffuso attraverso la porta-finestra spalancata. Un impasto sonoro orecchiabile, da Oriente in versione Ibiza e tuttavia ideale per le sue... Come definirle? Sedute di yoga abbinate a improvvisazioni di teatro-danza? Allenamenti per mantenersi elastica e in esercizio? Esibizioni di espressione corporea per tenere sulla corda me? In fondo era difficile che lei, per tanti giorni, non avesse mai percepito l’insistenza, il peso del mio sguardo. Possibile le fosse sfuggita la mia figura che traspariva dalle lastre? Lei, mi dicevo spiandola, era una donna di spettacolo. Dunque quello allestito ogni mattina doveva essere uno spettacolo. Una messa in scena a beneficio dell’unico spettatore, in mancanza di una platea. Non per questo la rappresentazione risultava sciatta, anzi. Tutto aveva inizio così. Il suo corpo slanciato, flessuoso faceva la propria comparsa nella grande luce marina di Napoli come materializzato dalla musica orientaleggiante. I capelli sarebbero spiovuti fino a metà schiena, se non li avesse raccolti in uno chignon. Era solita indossare un abbigliamento altrettanto pratico: una canotta nera su cui spiccavano braccia e spalle candide; un morbido pantalone batik. I piedi erano scalzi, lei li incrociava sedendo in una posizione da yoga. Con gli occhi socchiusi, il suo viso nel primo sole diventava di una compostezza soprannaturale.
Eppure lei era fin troppo umana... Una sera, l’estate prima, l’avevo vista baciarsi con l’ultimo ospite rimasto con lei, a festa conclusa. Un colosso che l’aveva fatta sparire, forse addirittura sollevata, nelle proprie braccia. Nel chiaroscuro fra luci interne e buio del terrazzino, quella piccola macchia bianca era certamente la mano destra di lei. La mano che risaliva sulla nuca dell’amante, ne circuiva il collo in modo ipnotico (per me, per loro).
Poi la segregazione aveva consegnato – e riservato quella donna solo a me. Niente più intrattenimenti, amanti occasionali. Ora lei, purificata, apparteneva solo a me. Lei e i suoi esercizi mattutini che la facevano sembrare quasi astratta. Nella posizione del loto, per esempio, lei era capace di generare e imporre intorno a sé un cerchio di silenzio religioso. La musica di sfondo, allora, sfumava in un sottotono impercettibile. Ecco, sì: in una specie di aura spirituale che mi faceva intuire la sua respirazione, rarefatta quanto la mia mentre la spiavo. Poi, dopo qualche minuto di ferma del tempo, il suo corpo a gambe incrociate prendeva a snodarsi, con una serie di posizioni che la facevano sembrare priva di vertebre. Le proiezioni del busto, i piegamenti laterali del tronco, le lente rotazioni incantatorie. Voleva impressionarmi con quelle dimostrazioni di flessibilità? Voleva che mi innamorassi? Si trattava di una donna, nell’età magica fra i trenta e i quaranta. Una donna di teatro, per giunta. E le attrici sono delle creature che vivono per essere amate, guardandosi bene dall’amare. Sono narcise che esistono per venire guardate, come ho fatto con lei durante l’intera quarantena. Da presuntuoso, pensavo che se avessi tralasciato quei nostri appuntamenti, l’avrei ferita a morte. Proprio io che amo le attrici: per il coraggio, la vulnerabilità, la breve e terribile intelligenza, il disprezzo della morte che è la loro unica buona fede. In realtà loro sono alla mercé di tutti, puoi ucciderle con un dito: basta negare la tua attenzione per annientare la loro esistenza. Anche perciò non smettevo di sfamarmi di lei con gli occhi, nutrendola con i miei occhi. Da presuntuoso, pensavo: IO ti ho nutrita, ti ho dato forza quando la mattina ti sembrava un’impresa tirarti su dal letto. Il tuo teatro era chiuso a tempo indeterminato, niente prove né palcoscenico. Non avevi nessuna prospettiva, nessuna buona ragione per non vegetare e basta. Ti tenevano in piedi i miei occhi che ostentavi di non scorgere, a meno di non far crollare il nostro gioco delle parti. O era vero il contrario? Le poche in volte in cui lei aveva tardato, in effetti, mi ero sentito morire. Diventavo insofferente, come un pubblico quando la rappresentazione sembra in forse. Così, quando lei finalmente si manifestava, il mio cuore scoppiava in un applauso di gioia. Chi dipendeva da chi? Poi è arrivata la grande pioggia, a primavera inoltrata.
Quell’ultima mattina il cielo era saturo di elettricità, di un calore opprimente. Un fulmine, simile al filamento delle vecchie lampadine. Il tuono: una fucilata che rimbombò per tutto l’anfiteatro della città. Da quella spaccatura del cielo grigio fosforescente si aprirono le cateratte di un diluvio. Pioggia. La pioggia di stravento stava spazzando via il polverio siccitoso che si era deposto sulla città, nelle ultime settimane. Una specie di lavacro, capace di affogare dentro di sé il brulichio del contagio. Da lì in poi la vita ha iniziato a rientrare nei contorni della normalità. Insieme sono cessate le apparizioni di lei sul balconcino, come se non avessero più avuto ragion d’essere. Di tutto ciò mi è rimasto il dubbio che il suo fosse stato un rituale propiziatorio o di purificazione, forse una preghiera muta. Di tutto quanto mi è rimasto il dubbio – e una lesione, dalla parte del cuore.
❞ Si trattava di una donna, nell’età magica fra i trenta e i quaranta Una donna di teatro, per giunta E le attrici sono delle creature che vivono per essere amate, guardandosi bene dall’amare Sono narcise che esistono per venire guardate, come ho fatto con lei durante l’intera quarantena