Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Quei maledetti ladri di cielo

Mancano tre minuti alla fine del turno ma la signora Nunzia vuol parlare con il sovrintend­ente capo

- Di Giuseppe Di Pace

Con un appello di Alessio Viola abbiamo chiamato a raccolta scrittori e intellettu­ali: lo scopo è capire come sta cambiando la nostra vita al tempo del coronaviru­s, offrendo ai lettori riflession­i che aiutino a passare la nottata. Oggi vi proponiamo un contributo di Giuseppe Di Pace, vice-questore e scrittore di romanzi noir. Chi vuole, può mandare il suo testo (non più lungo di 5000/ 5500 battute, corredato da minibiogra­fia - 600 battute - e foto dell’autore) all’e-mail redaz.ba@corrierede­lmezzogior­no.it.

L’orizzonte, spruzzato di vino rosso e di pensieri lattiginos­i, è bello e inutile. La città, ostaggio di un nemico invisibile, è stanca, galleggia pericolosa­mente su acque torbide; le finestre piano si gonfiano di luci smorte, trasudano respiri spaventati e increduli.

Nel Commissari­ato l’atmosfera è sospesa, smarrita in un presente greve e dilatato. La donna varca decisa la soglia, strascica i piedi per qualche metro. Il piantone si copre la bocca con una mascherina unta e scolorita; è trasandato, indossa una divisa blu che da troppo tempo non vede un ferro da stiro, le intima di non superare la linea gialla incollata al pavimento.

Al piano di sopra il sovrintend­ente capo Elena Balducci ha un gesto di stizza, un pomeriggio intero e non è riuscita a battere il record del maledetto giochino che il nipotino ha scaricato sul suo cellulare. Si affaccia al balcone, il pensiero di dover tornare in quel mondo immobile la infastidis­ce.

Guarda l’orologio. Mancano tre minuti alle sette di sera, il turno è finito. Elena ha cinquantan­ove anni, ha smesso da tempo di combattere contro i chili, vene bluastre solcano i suoi polpacci appesantit­i. Scruta lo specchio, negli occhi luminosi e nelle ciglia folte scorge rimasugli di bellezza. Finalmente può tornare ad indossare abiti civili, vedersi in uniforme da poliziotto la mette a disagio, le sembra che non sia più il tempo, che il suo corpo molle sia un insulto per quella divisa che sempre aveva portato con orgoglio.

Squilla il telefono. «Sovrintend­ente, c’è una strana donna, dice che è una professore­ssa e che vuole fare una denuncia».

«Una denuncia? A quest’ora? Non se ne parla proprio. Digli che non c’è nessuno, che deve tornare domani. Meglio ancora, digli che deve andare in Questura o dai Carabinier­i».

«Gliel’ho detto ma questa insiste».

E’ una vecchia signora che all’apparenza porta bene i suoi anni; si presenta come Nunzia, è minuta, piuttosto elegante, lo sguardo strano, vuoto, inzuppato di umori opachi, il rossetto steso con cura sulle labbra ben disegnate è un alito di vita.

«Di questi tempi si può uscire di casa solo per cose gravi. Di che si tratta?».

«Un furto». Fa la donna senza esitare.

«Un furto?» La pelle corrugata sulle tempie tradisce il disappunto della poliziotta. «E cosa hanno rubato?» «Abito a non più di cento metri da qui. La prego signora poliziotto… La prego. Ho portato due mascherine nuove». Il tormento che traspare dalla voce arrochita della vecchia signora quasi mette a disagio Elena che, senza indugiare fa cenno al giovane agente comandato di turno con lei, di cui non ricorda neppure il nome, di seguirla.

La casa è piccola, al piano rialzato di un elegante palazzotto d’epoca di periferia. Varcata la soglia d’ingresso tutto appare in perfetto ordine, le pareti sono tappezzate di libri, l’aria è dolciastra, impregnata di acido borico, l’odore delle case dei vecchi. La signora Nunzia scosta di lato una tenda, l’unica grande finestra si affaccia su un vicoletto non asfaltato; a pochi metri impalcatur­e, lamiere, scale e tavole di legno. «Guardate pure» fa la signora Nunzia.

I due poliziotti sbirciano velocement­e, poi incrociano i loro sguardi perplessi.

La signora Nunzia piange. Il suo è un pianto sommesso, delicato. «Stanno costruendo un palazzo. Un palazzo di cinque piani».

«Vuole denunciare un abuso edilizio? Signora, l’abbiamo seguita fino a casa sua perché ci ha parlato di un furto» fa il giovane agente.

«Io ho detto la verità, ma voi non avete occhi per guardare. E per capire».

«Capire cosa?» E’ sempre il poliziotto giovane che ha qualcosa da dire.

«Io ci sono nata in questa casa. Da questa finestra ho visto la mia prima stella cadente, dietro questi vetri ho scoperto cos’è un cuore che batte forte nel petto per un amore corrispost­o o disperato. E’ qui che ho imparato a soffrire e a sognare. E adesso, quel palazzo… Non ci saranno più stelle nei miei occhi. Né nuvole. Mi hanno rubato il cielo».

Una giovane ragazza apre la porta. «Nonna, dove ti eri cacciata? E’ da un’ora che ti cerco» le va incontro, trafelata. «Sono la nipote» si rivolge alla poliziotta. «Vogliate scusarla, da qualche tempo soffre di vuoti di memoria e strane fissazioni. E adesso, quel palazzo in costruzion­e…».

Elena si sveglia di soprassalt­o, strofina il dorso della mano sulla fronte madida di sudore. Guarda l’orologio, sono le tre del mattino. Va alla finestra, la spalanca, si sporge leggerment­e per guardare in alto. Il tempo sta cambiando, l’aria è fresca, cirri candidi e sottili si rincorrono veloci, sembra si divertano a nascondere e prendere in giro la luna e le stelle.

«Nessuno… Nessuno deve rubare il cielo. Che siano maledetti, i ladri di cielo» sussurra alla notte.

 ??  ?? Foto di Francesco D’Agostino
Foto di Francesco D’Agostino

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy