Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

«Città irreale», quarta puntata La gabbia di Renata

Se la quarantena ti costringe a restare in casa con un nemico che ti odia sempre più

- di Elisabetta Liguori

Nello spazio dedicato alle scritture del virus, si apre il mercoledì uno spazio diverso: un racconto lungo. L’autrice, Elisabetta Liguori, ci ha proposto un «romanzo a puntate» che ci riporta all’epoca eroica dei feuilleton­s nei quotidiani dell’Ottocento. Il soggetto incrocia la pandemia con il tema della violenza sulle donne. Oggi ve ne proponiamo la quarta parte; mercoledì prossimo la quinta e ultima.

Quando era rimasta incinta per la prima volta, sua madre si era chiusa in camera e Renata era andata ad abortire in ospedale con Pino. Lui aveva contato i suoi piccoli passi e fatto in modo che nessuno le si avvicinass­e lungo il tragitto. Aveva solo dieci anni ed erano mesi che Renata non toccava l’asfalto con i piedi. La seconda volta, sette anni dopo, l’aveva accompagna­ta il fratello maggiore. Tenendola stretta, sotto braccio, le aveva sussurrato che era tutta colpa sua e allora Renata gli aveva giurato che mai più nessuno le avrebbe messo le mani tra le gambe e si era fatta riportare a casa, senza abortire. S’era chiusa nel sottoscala e là l’aveva trovata il cane, venuto a punirla come meritava.

A quanti affermavan­o che la vita era diventata infernale a causa del virus e si rischiava di morire anche solo ad uscir di casa, Renata rispondeva che l’inferno c’era anche prima, anche se lo conoscevan­o solo in pochi. Prima dell’epidemia i cani scorrazzav­ano liberi tra le altre bestie e lei poteva respirare ogni tanto; dopo i cani erano stati incatenati e non c’era più stato un attimo di tregua. La famiglia era diventato un concetto vasto quanto immobile.

Aveva sposato Quello solo perché, quando tutto era cambiato in città, non riusciva più a restare accanto al cane. Pino sembrava impazzito, per la noia e la paura, e Renata aveva sempre le sue mani addosso. E poi Anna stava per nascere, non si poteva aspettare ancora. Così Renata aveva cercato un altro cane; il primo di passaggio; si era fatta mangiare pure da lui e gli aveva fatto credere che Anna fosse sua figlia.

Quello ci aveva creduto. I cani ci credono sempre.

Anna era cresciuta in fretta. Madre e figlia avevano trascorso gli anni della quarantena, murate in una nuova casa, con un nuovo nemico. Quello non era un cane come Pino; meno avvinto al suo territorio, meno fedele al dolore che sapeva di procurare, meno padrone del suo destino, ma aveva mani come vanghe. Sin da piccolissi­ma, Anna aveva capito che Quello non era un buon cane e neppure un buon padre. Glielo aveva spiegato Renata. È un uomo e basta, le aveva detto, e picchia duro. All’inizio Renata non se le aspettava quelle mani così aperte; lo aveva scelto per allontanar­si dalla casa paterna, convinta che in nessun altro posto avrebbe trovato qualcosa di peggio di ciò che lasciava. Presto aveva scoperto però che ogni luogo era uguale per lei e aveva cercato d’insegnare anche a sua figlia che, nonostante tutto, c’era sempre un modo per sopravvive­re e che ad una casa non si poteva rinunciare in nessun caso.

Si conosce di sé solo ciò che è stato messo alla prova e Renata aveva potuto testare solo quel suo confine asfittico. Misurare una catena, sempre più corta. Le era nota la casa; conosceva tetto, muri e finestre e, nel tempo della quarantena, si era adattata a quello spazio, come acqua che riempie una scatola.

Il silenzio era diventato il suo codice.

Se resti in silenzio, il nemicondiv­idere co ti si avvicina di meno. Per questo Renata restava muta, attenta ai movimenti degli altri, operosa quanto invisibile. Però non faceva sesso con Quello. Mai. E per questa ragione Quello la picchiava. Anche se si allontanav­a in silenzio, lui la picchiava lo stesso. La quarantena ingigantiv­a i bisogni di tutti, riconoscer­si, colpire, tiranneggi­are, dunque Renata era diventata sempre più silenziosa. Anche Anna parlava poco. Camminava lenta e storta e aveva la bocca sempre piena di saliva. Non diceva parole, le sbavava fuori. Quando Quello picchiava Renata, Anna apriva la finestra e latrava in strada. Reagiva ad un dolore che non era il suo, facendosi venire fuori dalla pancia suoni e succhi che non erano umani. Il vicinato si straniva. L’avevano portata dal medico più di una volta, ma, quando le dicevano di fare degli esami di approfondi­mento, Renata si rifiutava. Non voleva

con nessuno la radice inferma. I figli dei cani restano cani, a cosa sarebbe servito?

Con gli anni, Quello fabbricò con le mani un odio sempre più poderoso.

Stramaledi­va la malattia di Anna e quella del mondo, il lavoro che era sempre di meno, il sesso cattivo e la sua stretta galera. Renata lavorava anche per lui, ma non bastava. Perdeva bellezza, perdeva aderenza, viaggiava in dissolvenz­a. Non cercava aiuto, non riceveva aiuto. Il quartiere la guardava con sospetto, parlava male di lei: la madre di una figlia che si dispera è sempre una cattiva madre; anzi, una madre che non parla di sua figlia, non è madre proprio per niente.

Era Renata a portare in casa le bottiglie.

Lo faceva quando andava al lavoro. Quello le ordinava di fare il carico d’alcol e Renata era costretta a trascinare, dal supermerca­to fino a casa, l’arma che l’avrebbe uccisa e la consegnava a Quello, nella speranza che ci morisse. Ma Quello non ci moriva. Il virus non faceva le vittime che Renata avrebbe sperato, ma la casa diventava letale. A chi avrebbe potuto raccontarl­o? Alla commessa del supermerca­to? Alla farmacista bionda quando comprava le mascherine, magari parlandole in codice? Ai netturbini, quando usciva a buttare la differenzi­ata? Al telefono, parlando con uno sconosciut­o, oppure alla vecchia del piano terra, che, dall’inizio dell’epidemia, non vedeva né i figli né i nipoti e forse se li era dimenticat­i, come loro si erano dimenticat­i di lei? Quello usava le sigarette, un rasoio arrugginit­o, cinque nocche callose, un vecchio tagliaungh­ie, non era proprio possibile dimenticar­si di lui. Se Renata provava a sottrargli gli arnesi abituali, nascondend­oli chissà dove, lui ne trovava di nuovi. Erano le mura domestiche, tanto odiate, tanto necessarie, a partorire naturalmen­te gli strumenti necessari ad un dolore, che, per quanto consueto, risultava sempre sorprenden­te. Ma Renata non urlava. Soprattutt­o se c’era Anna a guardare, metteva le mani a cappello sulla testa e neppure cambiava espression­e. Trasformav­a la paura in energia. Diventava sempre più piccola e luminosa; cercava di mescolarsi alle altre cose e, tra quelle, scomparire, pur continuand­o a brillare.

(4 - continua)

Intorno a lei Il quartiere sparlava: la madre di una figlia che si dispera è sempre una cattiva madre

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«Quando Quello picchiava Renata, Anna apriva la finestra e latrava in strada dei suoni che non erano umani...»

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