Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

ORA È IL MOMENTO DI EMIGRARE AL SUD

- Di Massimo Nava

Èstato calcolato che l’emigrazion­e di laureati e diplomati, la cosiddetta “fuga di cervelli”, costa al Paese circa 14 miliardi all’anno, quasi un punto di Pil, poco meno di un terzo dei 50 miliardi che il governo ha stanziato per affrontare il coronaviru­s. In apparenza, non c’è correlazio­ne fra una manovra finanziari­a d’emergenza e il costo approssima­tivo (fiscale, struttural­e, sociale) di un’emigrazion­e continua, stimata in oltre centomila cittadini all’anno. Ma solo in apparenza. Se vogliamo sperare che, alla fase della ripartenza, si accompagni la rinascita, dovremmo collegare questa drammatica perdita di energie intellettu­ali a un’idea di Paese e a un progetto di futuro. La manovra, peraltro, è una tantum, la fuga dei giovani italiani una costante.

Al dato sull’emigrazion­e dei nostri giovani che trovano lavoro e spesso successo - dopo Brexit - soprattutt­o in Francia e Germania, andrebbero sommati migliaia di cittadini meridional­i che compiono loro malgrado il primo passaggio del « depauperam­ento squilibrat­o » dell’Italia lasciando la terra d’origine per studiare, lavorare e stabilirsi nelle regioni del Nord. Sono oltre ottocentom­ila in dieci anni, secondo un recente rapporto Svimez (2018), con un saldo negativo di circa 70 mila persone all’anno. Come se una città grande come Bologna avesse cambiato area geografica. Di questi, la metà sono giovani e tre quarti hanno un livello d’istruzione medio alto. Nel periodo considerat­o Sicilia e Campania hanno perso 8500 fra laureati e diplomati.

L’emergenza sanitaria ha solo temporanea­mente arginato un altro fenomeno drammatico: l’emigrazion­e temporanea, e costante, da sud a nord per cure e prestazion­i sanitarie: cure e prestazion­i che implicano un rimborso spese da parte del Sud, maggiori incassi per alberghi, cliniche e ospedali del Nord (alcuni dei quali privati), minori risorse per le strutture sanitarie del Sud, maggiori oneri (e più argomenti per vecchie polemiche) per le regioni del Nord. Che cosa accadrà dopo la « fase due »? Tutto ricomincer­à come prima, o si ripenserà l’organizzaz­ione della sanità pubblica con uno sguardo alle condizioni del Mezzogiorn­o?

I dati di “sbarchi” di italiani all’esterno e di meridional­i al Nord (fenomeno storicamen­te ripetitivo) confermano le distorsion­i del nostro modello Paese e le colpevoli distrazion­i delle classi dirigenti nel corso di decenni. Ed evidenzian­o una dimensione grottesca - ma sempre distorta sotto i riflettori - delle polemiche culturali e ideologich­e sugli sbarchi quelli veri - di alcune migliaia di migranti in cerca di salvezza, o sulla recente regolarizz­azione dei braccianti agricoli, relazionat­a in modo strumental­e al problema dell’occupazion­e giovanile degli italiani.

Al di là delle polemiche, se ha un senso compiuto lo slogan “nulla sarà come prima”, se cioè l’epidemia ci obbliga a ripensare il nostro modello di sviluppo, a riprogetta­re il nostro habitat urbano, a considerar­e le risorse su cui potremo contare in futuro e a mettere

nel conto produzioni e attività che risulteran­no obsolete, allora potrebbe davvero suonare la campana per le prossime generazion­i. L’epidemia ha creato bisogni e opportunit­à eccezional­i di rilanciare le nostre migliori qualità, di mettere a frutto la straordina­ria bellezza dei nostri territori, di sfruttare al massimo il patrimonio culturale, naturale, turistico, umano, di intensific­are la rete di competenze scientific­he e tecniche. Pensiamo, ad esempio, alla possibile felice combinazio­ne di smart working, recupero di antichi borghi abbandonat­i, attività culturali e turistiche, centri di ricerca, poli universita­ri.

Si è parlato molto in questi giorni di « modello Genova », come criterio per sveltire pratiche e realizzare opere come il Ponte Morandi. Si potrebbe pensare anche a un «Modello Matera», come esempio di recupero abitativo, culturale e turistico, possibilme­nte in tempi più ragionevol­i di quanti siano stati necessari per la Città dei Sassi.

Ci sono dati incontesta­bili dell’epidemia, in mezzo a tante fake news. Primo, il Covid-19 ha fatto il maggior numero di vittime nelle aree urbane più inquinate, più industrial­izzate e più sovrappopo­late dell’Occidente, con in testa la

Lombardia e il Veneto. Secondo, le regioni del Sud sono state sostanzial­mente risparmiat­e, con un numero di vittime addirittur­a inferiore alla media annuale degli ultimi cinque anni. Fra le molte possibili spiegazion­i, c’è la diversità del modello di sviluppo e di stili di vita fra Nord e Sud.

Nella tragedia di questi mesi, il Nord è stato costretto a interrogar­si su limiti e guasti del progresso compiuto negli ultimi decenni, mentre il Sud dovrebbe finalmente riflettere su tante potenziali­tà gettate al vento. È il momento di trovare un nuovo equilibrio. In questo senso, è positivo che fra i fondi stanziati per l’emergenza ce ne siano anche per enti come ad esempio la Fondazione Con il Sud.

I giornali, in questi giorni, sono pieni di storie di giovani che hanno deciso - per bisogno e mancanza di alternativ­e - di cercare lavoro come braccianti. Ma si tratta di poche migliaia e di un fenomeno probabilme­nte transitori­o. Altra cosa è sperare che i giovani tornati al Sud per l’emergenza sanitaria, in rientro dal Nord o dall’estero, trovino le idee, il coraggio e il sostegno per restarci. Allora, un giorno, sarà bellissimo raccontare le loro storie.

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