Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Quando il 2 giugno di 74 anni fa il Sud bocciò la repubblica
Tre quarti di secolo dopo il referendum del 2 giugno 1946: il Paese appare oggi capovolto sul piano antropologico
Ci sono voluti tre quarti di secolo, ma l’Italia si è rovesciata. Una giravolta sociale, economica. Forse persino antropologica, senza dubbio pericolosa. Poiché come tutte le giravolte ha finito per mescolare camicie con pantaloni, maglie e scarpe, piedi al posto dei baffi. Ma per provare a capire la confusione in cui siamo precipitati, forse sarebbe il caso di guardare con più attenzione il trampolino da cui ci siamo lanciati.
Quella domenica lì (2 giugno 1946, così come il giorno dopo e le settimane a seguire) in regioni che oggi esibiscono con fierezza la loro vocazione sovranista (come Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto), le preferenze per la Repubblica non scesero al di sotto del 57%. Al contrario, in territori che oggi puntano tutto sull’equità socio-economica e sull’identità del Paese (come Puglia, Campania, Sicilia, Calabria e Sardegna), la Monarchia non scese al di sotto del 60% dei voti. Ci sono voluti tre quarti di secolo per rovesciare quelle scelte, non per rinnegare la Repubblica nata sotto il segno dei Gemelli (e della disperazione post bellica) ma per impastare con magma incandescente i sentimenti e soprattutto le sofferenze che portarono a quella decisione. Ecco allora che, letti alla lente della storia, dati ed episodi fanno addirittura fatica a essere ricordati.
A cominciare dai voti, espressione di un popolo e (forse) del suo pensiero. La Puglia, così come fece tutto il Mezzogiorno senza eccezione, si schierò sfacciatamente a sostegno della Monarchia (954.754 voti, pari al 67,3%), nel tentativo di soffocare in culla la Costituente (465.620 voti, cioè 32,7%). E pensare che di quella Costituente avrebbe fatto parte Aldo Moro, che una sera di fine maggio – a pochi giorni dal referendum – tenne un agitato comizio a Palo del Colle, in piazza Santa Croce, dove il palco fu sistemato di fronte alla chiesa matrice, sotto la bandiera tricolore con stemma sabaudo. Al termine dell’intervento un gruppo di monarchici urlò «a morte i nemici del Re», e Moro replicò «non siamo qui per la morte di nessuno, ma per la sopravvivenza dell’Italia». A quel comizio c’era anche Rino Formica, figlio di un ferroviere antifascista e tra i pochi testimoni pugliesi (ancora in vita) di quei drammatici giorni. Un risultato così eclatante, quello della Puglia, che finì per impressionare Italo Calvino. Scrivendo a Luigi Einaudi, che in seguito sarebbe diventato presidente della Repubblica, Calvino disse «dovremmo salvare la Puglia, non tollerare una deriva oligarca nella regione più vicina all’Europa dell’Est» (Tutte le lettere, Italo Calvino, Einaudi). Evidentemente consegnò i suoi timori a mani indecise, Calvino ignorava che anche Einaudi avesse votato Monarchia.
Difficile ricostruire con esattezza cosa avvenne in Puglia, men che meno tra intellettuali e classe imprenditoriale costretti in poche ore a correggere la propria posizione, a rinnegare le proprie scelte. Tuttavia alcune sono rimaste scolpite nelle pagine della Costituzione, ovvero del libro meno letto e conosciuto dal popolo che meno legge in Europa: gli Italiani. Le cronache dell’epoca raccontano di Benedetto Croce ospite nella casa di villeggiatura dei Laterza (allora sulla strada per Carbonara, ribadisce proprio Formica) mentre spiega perché preferire la Monarchia alla Repubblica, apparentemente senza alcuna coerenza dal momento che fu uno dei pochi intellettuali italiani ad opporsi alla vergogna delle leggi razziali. «Il liberalismo, disgiunto dalla democrazia, inclina sensibilmente verso il conservatorismo (...) la democrazia, smarrendo la severità dell’idea liberale, trapassa nella demagogia e, di là, nella dittatura (Scritti e discorsi politici 19431947, Benedetto Croce, Laterza)». La questione vera era legata al potere che sarebbe stato conferito alla chiesa dalla Democrazia Cristiana, ragione che – insieme al fatto che il Nord Italia fece la Resistenza, mentre il Sud in buona parte la disertò – giustifica il plebiscito con cui si pronunciò il Mezzogiorno. Nella sola provincia di Bari, la Monarchia prese 355.744 voti e la Repubblica 190.662. Significativo il caso Foggia, città in cui tre anni prima violenti bombardamenti avevano quasi raso al suolo l’abitato causando oltre 20 mila vittime civili: l’esito su scala provinciale fu Monarchia 155.852 voti, Repubblica 129.743. Allora Bari e Foggia, insieme, formavano un solo collegio in cui la Monarchia raggiunse il 61,49% dei consensi. Così come l’allora collegio LecceBrindisi-Taranto, che con il 75,30% respinse l’avvento della Repubblica. Più moderata la vittoria nel collegio Potenza-Matera (59,39%), altro plebiscito tra Salerno e Avellino (72,91%).
Non mancano isolati episodi di coraggio, storie di dissenso e scelte controcorrente che adesso – cioè tre quarti di secolo dopo – città e comunità locali esibiscono non senza vanto. Come Gravina di Puglia che scelse Repubblica (60,15%), insieme a Manfredonia (50,51%), Sannicandro Garganico (73,69%) e pochissimi altri paesi pugliesi. A leggerli oggi, questi numeri, sembra che l’Italia non abbia mai smesso di decidere a metà, eppure da quel quadro frammentato emerge soprattutto l’atteggiamento pavido e antistorico che assunse la Puglia: la regione in cui le lotte contadine avrebbero cambiato per sempre la condizione degli operai, non ebbe scrupoli a schierarsi con le ragioni del più forte. Forse non è cambiato niente da allora, se in un territorio frontaliero e a fortissima vocazione solidale, movimenti che evocano la difesa dei confini e dell’italica stirpe raccolgono così tanti consensi da emendare la nostra storia. Forse, a cominciare dalle aule delle nostre scuole, si dovrebbero affiggere i volti e i nomi dei padri della Costituente di origine pugliese, quelli che hanno scritto la storia prima che la rovesciassimo: Luigi Allegato (San Severo), Mario Assennato (Brindisi), Giuseppe Ayroldi (Brindisi), Italo Giulio Caiati (Bitonto), Vincenzo Cicerone (Lecce), Gerardo de Caro (Molfetta), Beniamino de Maria (Galatina), Giuseppe Di Vittorio (Cerignola), Domenico Fioritto (Sannicandro Garganico), Antonio Gabrieli (Calimera), Giuseppe Grassi (Lecce), Ruggero Grieco (Foggia), Giuseppe Imperiale (Foggia), Nicola e Pasquale Lagravinese (Cisternino), Leonardo Miccolis (Putignano), Vito Monterisi (Bari), Aldo Moro (Maglie), Alfonso Motolese (Martina Franca), Raffaele Pastore (Spinazzola), Capano Perrone (Trani), Raffaele Recca (San Severo), Cesario Rodi (Torre Santa Susanna), Carlo Ruggiero (Foggia), Vito Mario Stampacchia (Lecce), Martino Trulli (Triggiano) e Luigi Vallone (Galatina).