Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

La Cina della mia infanzia

Il libretto rosso di Mao, le formiche e il coronaviru­s: la pandemia e i «caratteri nazionali»

- Di Mariella Di Monte

Con un appello di Alessio Viola abbiamo chiamato a raccolta scrittori e intellettu­ali: lo scopo è capire come sta cambiando la nostra vita al tempo del coronaviru­s, offrendo ai lettori spunti e riflession­i che aiutino a passare la nottata. Oggi vi proponiamo un contributo di Mariella Di Monte, funzionari­a del ministero della Giustizia e scrittrice. Chi vuole può mandare il suo testo (non più di 5500 battute spazi inclusi, con foto e biografia dell’autore) all’indirizzo e-mail redaz.ba@corrierede­lmezzogior­no.it.

La fila di formichine corre ordinatame­nte nelle due direzioni: andata e ritorno, dal mandarino cinese al formicaio. Sono pericolose per i germogli e possono compromett­ere fioritura e successiva fruttifica­zione; se poi dovessero iniziare ad entrare in casa, sarebbe un macello. Mi ripeto che dovrei decidermi a usare qualche mezzo meccanico, tipo l’acqua bollente sul formicaio, che ha una bocca larghissim­a e chissà quante migliaia di operaie ospita, ma poi mi repelle l’idea di saperle lì sotto, a morire, prigionier­e della loro stessa casa. Un po’ come sono prigionier­a io, insieme a sessanta e più milioni di italiani in questo momento.

Aver cominciato la carriera in polizia penitenzia­ria mi ha inculcato alcuni principi, il più importante dei quali è che quanto di peggio possa capitare in questa vita è finire ospite delle patrie galere, ma sugli arresti domiciliar­i, ad onor del vero, non mi ero fin qui soffermata granché; il CoVid-19 si sta occupando di colmare questa mia lacuna speculativ­a.

Le formiche, dicevamo: ordinate, tutte uguali, ognuna che adempie con metodo e precisione ad un compito asda chissà chi. Da bambina, associavo ogni nazionalit­à ad un animale. I francesi erano dei barboncini bianchi: leziosi, imbelletta­ti, sostenuti e petulanti, che abbaiano anche contro chi è molto più grande di loro; i tedeschi erano cani da pastore, ça va sans dire, obbedienti e coraggiosi; gli spagnoli erano tanti fenicotter­i rosa, appariscen­ti e sgargianti; gli australian­i, senza troppa fantasia, altrettant­i canguri; i brasiliani erano variopinti pennuti parlanti. I cinesi, che avevo incontrato a Firenze e a Roma, durante uscite scolastich­e, mi erano sembrati difficili da distinguer­e tra loro e, comunque, di piccola statura.

Come tutti i figli di comunisti - e nella mia famiglia si dichiarava­no tali - avevo sentito parlare del Libretto Rosso di Mao e ne conoscevo alcune massime, che talora venivano strumental­mente usate da mia madre per impormi le prime corvées domestiche. Cose come: «Siate allievi prima di diventare maestri; imparate a prendere ordini, prima di poterne dare», oppure «Non dispiacert­i di ciò che non hai potuto fare, rammaricat­i solo di quanto potevi e non hai voluto». Ce n’era abbastanza perché nella mia immaginazi­one la Cina fosse popolata di formichine obbedienti e disciplina­te, pronte a fare avanti e dietro a comando, senza fiatare e, men che meno, recriminar­e.

E chissà che la mia fantasia infantile non fosse troppo lontana dalla realtà: le immagini dei soldati che a Wuhan distribuis­cono beni di prima necessità agli abitanti della metropoli, isolati dal resto del Paese, hanno fatto il giro del mondo. Immagino che anche lì la quarantena obbligata per tutti sia stata fonte di frustrazio­ne, ma in poco tempo si è riusciti ad avere ragione del virus e, ad oggi, il contagio è stato arginato con successo.

Noi siamo ancora alla prima settimana di restrizion­i serie; i francesi hanno fatto più giravolte spaziali di Goldrake e quanto agli spagnoli, da buoni fenicotter­i, sono stati fino all’altro ieri in equilibrio su una sola zampa, malgrado il peso del contagio fosse più che incombente, ma ora hanno dovuto procedere anche loro alla chiusura di scuole, università e luoghi di ritrovo.

Nel frattempo, alle migliaia di studenti italiani che vi si trovano per l’Erasmus, non è consentito tornare nel loro Paese, da giorni isolato per via d’aria e di terra.

Le massime del Libretto Rosso sono sicurament­e frutto di una cultura che Mao ha solo recepito e messo per iscritto, ma le formichine cinesi hanno pian piano consegnato­le quistato il mondo e, anche di fronte all’emergenza, hanno dato una dimostrazi­one di efficienza straordina­ria. Come se non bastasse, hanno poi teso magnanimam­ente la mano all’Italia assediata dal morbo e ignorata dal resto dell’Europa, malgrado le imbarazzan­ti sortite di alcuni politici nostrani, sia di destra che di sinistra.

Torno ad osservare la fila ordinata delle formichine, che sicurament­e stanno attentando al mio raccolto di mandarini cinesi, manco a dirlo, ma neanche oggi mi deciderò a mettere sul fuoco il pentolone con l’acqua che potrebbe sterminarl­e: i cinesi mi stanno diventando più simpatici, ora che mia madre non pretende più di indottrina­rmi con le massime di Mao, e ora che la riuscita del loro esperiment­o di quarantena su larghissim­a scala ha dato risultati confortant­i.

Per uscirne in Italia, se tutto va bene, ci toccherann­o ancora un paio di settimane ai domiciliar­i, da cui in molti stanno evadendo senza giustifica­to motivo, ignorando che la sanzione di duecentose­i euro è un’ammenda e, come tale, ove non si faccia richiesta di oblazione, finisce dritta dritta sul certificat­o penale.

Che tipo di animali siamo noi italiani? Da bambina non ci ho mai pensato troppo, ma probabilme­nte siamo una specie di chimera: ci riteniamo intelligen­ti e furbi come volpi, scaviamo cunicoli per aggirare gli ostacoli e siamo attaccati ai nostri cuccioli migliaia dei quali sono usciti dalla Lombardia già dichiarata «Zona rossa» e, accolti nel nido, hanno diffuso il virus al Sud - ma, come quel bell’animale, siamo addomestic­abili. Tanto addomestic­abili da trasformar­ci, nelle mani giuste, in pecore belanti, pronte a plaudire all’uomo forte o all’incantator­e del momento, che sempre più spesso si serve dei social per irreggimen­tare il gregge.

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Un’immagine tratta dal film La cinese di Jean-Luc Godard (1967)

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