Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Braccianti sfruttati Il re del marmo finisce ai domiciliari
Blitz nel Foggiano: arrestati l’imprenditore Passalacqua e il suo vice
Un imprenditore di 78 anni, Settimio Passalacqua, noto come il re del marmo, è stato arrestato ai domiciliari insieme al suo braccio destro con l’accusa di caporalato. Secondo i carabinieri, attraverso finte assunzioni le aziende ricavavano sgravi fiscali.
FOGGIA Quasi duemila ettari di proprietà, oltre a numerosi altri presi in affitto - per un volume di affari, nel 2019 di 5 milioni e 800mila euro - dove lavoravano 222 dipendenti, italiani e stranieri, ma senza seguire le norme sui contratti e quelle relative alla sicurezza e alla salute. È quanto ipotizzano i carabinieri che ieri hanno arrestato Settimio Passalacqua, noto imprenditore agricolo di Apricena, di 78 anni e il suo braccio destro, Antonio Piancone di 52 anni. Per i due, che hanno ottenuto gli arresti domiciliari, le accuse a vario titolo sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro aggravati e altre violazioni in materia di formazione dei lavoratori sui rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro, nonché relative all’igiene del lavoro e di uso dei dispositivi di protezione individuali.
Settimio Passalacqua è un nome noto dell’imprenditoria della provincia di Foggia. È conosciuto anche come il «re del marmo», proprietario di una cava e fondatore dell’omonimo gruppo industriale impegnato anche nel campo dell’agroalimentare. I braccianti, extracomunitari di diverse nazionalità - in particolare africani e albanesi - quasi tutti reclutati dai «ghetti» della provincia, ma anche comunitari ed italiani, venivano impiegati nelle cinque aziende agricole dell’imprenditore, spiegano gli inquirenti «in condizioni di assoluto sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, in dispregio delle più basilari norme in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro». I lavoratori venivano pagati, a seconda delle mansioni, da 3,33 ai 5,71 euro l’ora, in violazione, hanno spiegato ancora gli investigatori, delle previsioni contenute nei contratti collettivi nazionali e territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali di settore. Molti dei braccianti lavoravano tutti i giorni della settimana, tra le 7 e le 9 ore giornaliere, senza alcun giorno di riposo e con una pausa di circa 30 minuti per il pranzo, anche se non sempre era concessa. Lavoratori che non potevano assentarsi per ferie o per malattia e che, dicono ancora gli inquirenti, lavoravano senza alcuna protezione: erano infatti sprovvisti di scarpe anti infortunistiche, guanti protettivi e occhiali di protezione, come invece prevede la legge.
Ad assumere i braccianti, secondo quanto emerso dalle indagini, era Piancone che aveva contatti con altri caporali della zona. Le indagini avrebbero anche accertato la compravendita di giornate lavorative in modo da ottenere lo sgravio contributivo per l’azienda e il riconoscimento delle indennità assistenziali a favore del lavoratore fittizio. Tra gennaio e luglio 2019, gli investigatori avrebbero accertato che le imprese avrebbero avuto un tornaconto di quasi 650mila euro per le parziali retribuzioni, con un danno all’erario di 280mila euro.
Le cinque aziende agricole dell’imprenditore sono state sottoposte al controllo giudiziario: il gip del tribunale di Foggia ha nominato un amministratore, con il compito di attuare le procedure per la regolarizzazione della corretta gestione aziendale, assicurando anche il ripristino dei diritti dei lavoratori. «L’operazione di oggi dimostra che la legge anti caporalato sta dando risultati importanti in Capitanata, ma per sconfiggere il caporalato serve il coinvolgimento di tutti». Così Mohammed Elmajdi, dell’Anolf Puglia l’Associazione nazionale oltre le frontiere della Cisl, secondo cui «è necessario che tutti facciano il proprio dovere. Ben vengano le operazioni come quella dei carabinieri».
Che così conclude: «Ma è necessario che il problema sia affrontato con politiche serie anche dalle associazioni datoriali e sindacali. Non basta solo l’azione giudiziari, perché il caporalato è anche un problema culturale».
Mohammed Elmajd Oggi il caporalato è anche un problema soprattutto culturale