Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

L’ATTO PUNITIVO DEL KILLER NARCISO

- Di Vera Slepoj

Il delitto non è mai un’occasione, bensì la conclusion­e di un atto, un pensiero pervasivo, una visione del mondo. Uccidere è definire lo spazio tremendo del potere, del togliere o dare la vita, un groviglio di schemi mentali ed emotivi, culturali, educativi e comunque patologici che si imbevono della sofferenza dell’altro, della sua fine e del trionfo di uno strano meccanismo di onnipotenz­a ancestrale. Il delitto di Lecce, in cui sono stati uccisi l’arbitro Daniele De Santis e la sua compagna Eleonora, non è altro che l’apice di un bisogno acuto e irrefrenab­ile di affermare se stesso, il passaggio quasi inevitabil­e per il carnefice di esaltare il proprio narcisismo, quel meccanismo mentale che restringe il campo dell’altro verso la protezione e l’esasperazi­one, in qualche modo, di un “se stesso” forse incompiuto. Il meccanismo del giovane Antonio De Marco, aguzzino prima e omicida poi, è quello della punizione, del controllo sul proprio territorio mentale per mezzo dell’affermazio­ne della propria identità incompiuta.

Sul narcisismo si è scritto tanto, ma dobbiamo andare oltre l’idea che il narcisista sia un soggetto che si ami, tutt’altro, è una personalit­à incapace di riconoscer­e l’altro come valore, ma dal quale dipende quasi inesorabil­mente. De Marco viene estromesso dal legame di coppia per scelte di vita della coppia e da

quell’unione.

Entriamo nel mondo di Antonio, che trova in quell’unione e in quella casa una propria dimensione e un proprio ruolo, una propria collocazio­ne emotiva; il bisogno però di dominarne gli affetti lo rende incapace di accettare l’allontanam­ento dalla casa e il conseguent­e cambiament­o. È così che l’ego si trasforma in giudice implacabil­e, un sentimento che trasuda vendetta; in tal modo pianificar­e l’eliminazio­ne attraverso il dolore ricuce l’oltraggio e ci fa ricordare i riti antichi di punizione e di morte. L’ossessione della tutela del proprio sé lo rende e lo trasforma in una macchina razionale di torture e di morte. Si incrociano

così narcisismo e autoritari­smo dentro il bisogno di dominare le emozioni attraverso l’affermazio­ne di se stesso attraverso il delitto.

Questo crimine efferato offre una straordina­ria mappa interpreta­tiva sull’origine e sulla genesi dei delitti perché, di fatto, è l’incapacità di riconoscer­e i propri limiti a trasformar­e le relazioni in omicidi. Solitudine, frustrazio­ne, mancanza di contenuti valoriali costringon­o gli individui a restringer­si verso un unicum di pensiero, tutti ingredient­i per spostare le fragilità, trasforman­dole in una forza, ovviamente delirante, ma non troppo, una forza capace di trasformar­e il proprio crimine in un rivolo di compiacime­nto.

Uccidere con crudeltà necessita di una forza mentale e fisica non indifferen­te, e a questo riguardo, come per altri delitti, non c’è necessaria­mente una causa nell’infanzia, nella famiglia, nella società, tutti elementi giustifica­tivi che cerchiamo di trovare per i delitti che ci angosciano. Invece dobbiamo accettare che tutto riguarda sempliceme­nte la soggettivi­tà, un modo drammatico di interpreta­re se stessi. Si diventa crudeli perché l’altro, ad un certo punto, non riesce più ad esistere, ma è necessario per far credere al narcisista di essere padrone, se non del mondo, almeno della vita degli altri.

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