Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Un racconto senza rabbia
Lacci, il nuovo lavoro di Daniele Luchetti di cui parliamo oggi, è un film fornito di prologo. Un inizio ritmato dalle note di «Letkiss», un reperto di Studio Uno del 1965 che gli sceneggiatori hanno rilanciato negli anni 80. Un brano, divenuto una hit delle sorelle Kessler (e anche dei Giganti, pensate un po’), che non solo diventa il tema ritmico del film, ma anche il suo unico momento distensivo. Qui il nucleo familiare protagonista della pellicola viene ripreso collettivamente mentre balla e si diverte. Daniele Luchetti torna quindi a raccontare le relazioni familiari in questo film che ha aperto l’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Il regista naviga in una barca che scorre nel tempo, sfrecciando avanti e indietro tra Napoli e Roma, dai primi anni Ottanta a oggi. In un periodo di circa 35 anni, in tre differenti fasi della loro vita, lo spettatore segue vicende e litigi di una coppia sposata che si separa, senza riuscire a tagliare la corda che li lega, e l’effetto che questo limbo distruttivo ha sui loro figli.
All’inizio i due protagonisti sono interpretati da Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher. Nella maturità invece da Silvio Orlando e Laura Morante. Lo Cascio interpreta Aldo, il personaggio che racconta con una finta ingenuità le sue infedeltà alla moglie (Vanda) avviando con lei un estenuante corpo a corpo sentimentale. Una lotta destinata a provocare effetti devastanti che esploderanno nel finale con Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini, i figli cresciuti della coppia.
Lacci è un buon film. A distanza di 25 anni da La Scuola, rinnova il fruttuoso rapporto fra Daniele Luchetti e Domenico Starnone, sceneggiatore del film e autore del libro che ha ispirato il lavoro. Una storia di ribellione generazionale, un film sul tradimento e sulle sue conseguenze, sui legami e sulle attese a cui però manca la rabbia. Non c’è la voglia di trasformare questo (melo)dramma familiare in qualcosa di palpitante. Neanche il riscatto finale riesce a dare il giusto spessore a un lavoro benfatto, ma che si mantiene in superficie senza andare a fondo. E che rischia di essere ricordato come la versione italiana di Storia di un matrimonio. E questo non lo merita.