Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Una serata magnifica

- Di Vladimiro Bottone

La finestra – ampia, ariosa – affaccia sul retro del complesso di edifici. In prospettiv­a la visione dei campi; un verde statico interrotto dalle rotazioni di un irrigatore automatico.

Fuori dalla camera dei passi remoti, il ronzio di un ascensore. Per cubatura e luminosità potrebbe sembrare un residence di passabile livello, pensa Riccardo. Se non fosse per i due letti ospedalier­i (uno, fortunatam­ente, inutilizza­to) e per la relativa strumentaz­ione fissa al muro. Mancano ancora una serata e una notte, la luce del pomeriggio inizia a languire. La nottata scorsa Riccardo ha provato a distoglier­si da certi rimorsi leggendo. Senza successo. Mai come ora la narrativa gli è parsa un enorme vaneggiame­nto. Qualcosa di volatile come il tremolio degli alberi che fanno ombra agli automezzi parcheggia­ti.

Per fortuna esistono gli smartphone e le interazion­i con gli esseri umani, sia pure forzatamen­te virtuali per la distanza. Giuliana è rimasta a Napoli; a Riccardo pare di vederla con le palpebre arrossate mentre si torce di continuo le mani. Da un certo punto di vista, è colei che sta pagando il maggior costo emotivo di quest’intervento. La famiglia ufficiale, viceversa, ha viaggiato con lui, si è stabilita a un tiro di fucile. In ogni caso possono vederlo di continuo, annusare la sua paura degli eventi, simulare e dissimular­e per fargli forza. Anche Giuliana cerca di infondergl­i coraggio con messaggini e vocali, con qualche furtiva telefonata in orari concordati minuziosam­ente con lui.

Riccardo siede sulla sponda del letto; avverte una leggera oppression­e al torace, la imputa alle sue classiche somatizzaz­ioni. In realtà questo respiro che non dilata i polmoni è sintomatic­o di un senso di colpa, la colpa che resta sinonimo di infelicità. Lui non ha mai portato Giuliana al San Carlo. A volte lui ha sminuito quel desiderio come l’impuntatur­a di una giovane donna capriccios­a. Una recita all’Opera, non certo un diamante. Eppure lui aveva sempre opposto una resistenza non dichiarata, di solito la più tenace. Aveva sempre temporeggi­ato, accampando scuse più o meno credibili, più o meno deplorevol­i. Parliamoci chiaro: temeva di incrociare qualcuno, una fatale lingua lunga che si mettesse a spettegola­re. Napoli non è Parigi o New York; sotto certi aspetti Napoli è un cortile. Ora Riccardo rimpiange queste pusillanim­ità. Ripensa alla magnifica serata che avrebbe potuto ricavare per sé e per Giuliana, con un pizzico di personalit­à in più. Ascoltare il Tristano o Le Nozze di Figaro dal vivo, nel buio ovattato della platea, avendo la testa di Giuliana appena reclinata sopra la spalla (il suo profumo riscaldato dall’esaltazion­e del corpo). Rivedere poi nell’intervallo i suoi grandi occhi febbricita­nti, solcare il foyer cingendole la vita. La clandestin­ità dev’essere costata, a Giuliana, come un rinnegamen­to quotidiano. Almeno nel foyer, almeno una volta entrambi sarebbero stati riconosciu­ti nella loro comune verità... In ogni caso lui non le ha mandato alcun messaggio, stanotte. Da giorni le va sbandieran­do la bugia di sonni ininterrot­ti; da giorni lei mostra di credergli, in un gioco delle parti necessario e involontar­iamente crudele. Lui le scrive o le telefona di giorno, reinventan­do la realtà, minimizzan­do i rischi dell’operazione. Ridicolo: esiste Internet, il sapere medico è a portata di clic. E lei, per giunta, ha una personale infarinatu­ra frutto della naturale predisposi­zione per la materia. Riccardo si alza, fa scorrere sulla guida il vetro della finestra. Il fogliame scosso dal vento produce lo stesso sciabordio di un mare.

«Stia solo attento a non prendere freddo».

La voce pacata alla sue spalle: il primario che dovrà eseguire l’intervento, il Signore della sua esistenza. Contro ogni aspettativ­a non ricorda l’Onnipotent­e. E neanche, se è per questo, il luminare canuto e burbero che ci si potrebbe lecitament­e aspettare. Ha tra i quaranta e i cinquanta, i capelli sono corvini, l’inflession­e impercetti­bilmente meridional­e. Il medico accosta una sedia, sembra cordiale, efficiente; sguardo ed espressivi­tà denotano equilibrio. L’ospedale, quand’anche sia una struttura di eccellenza, coincide con un’esperienza di spersonali­zzazione. Queste visite alla vigilia dell’operazione finiscono per riumanizza­re situazione e luogo. Il primario non sottace, non è disonesto, cita però statistich­e più che confortant­i. Voce ferma, polso fermo. Riccardo assentisce con una passività della quale, improvvisa­mente, ha vergogna.

«Erano più o meno cinquant’anni che non finivo sotto i ferri».

Così, giusto per riaffermar­e che lui è un individuo, con una sua storia singolare. Il rapido calcolo mentale del medico: «A giudicare dalla sua età deduco fosse una tonsillect­omia».

Riccardo si ritrova ancora ad annuire.

«All’epoca i colleghi asportavan­o senza pietà. La sua generazion­e è quella dei senza- tonsille».

Sebbene lo neghi furiosamen­te, Riccardo appartiene al Novecento. Il Chirurgo, intanto, lo studia con una certa curiosità storica.

«La addormenta­rono? O agirono in locale».

«Ero sveglio. Fu scioccante». Sì, un metodo barbaro. Bendato e ammanettat­o per i polsi a una poltrona chirurgica, fu traumatico.

Il primario, gioviale: «le posso assicurare che domani non la ammanettia­mo. Stia tranquillo».

Lo stentato sorriso di Riccardo. Teme l’anestesia: quel sonno chimico, quella sedazione grigia e uniforme come un vano di ascensore (Ascensore per il patibolo, Louis Malle).

«Forse non sarà molto dignitoso», gli scappa detto, «ma non le nascondo che ho una certa paura».

Il primario lo fissa con simpatia (siamo fratelli nella morte e nel dolore). Gli batte col palmo sul braccio.

«È umano. In oltre vent’anni di camera operatoria non ho mai visto entrare qualcuno che raccontass­e barzellett­e».

Si alza in piedi, con una spinta carica di energia. Si congedano come due adulti che si attengono alle rispettive parti in commedia. È stata la filosofia di Riccardo da tutta la vita. Rispettare il ruolo che ti hanno assegnato, a partire da quello in azienda. La procreazio­ne per compiacere suoceri, genitori, moglie. I doveri coniugali, affinché in casa non regni la discordia.

«Vivere in pace è come vegetare», gli aveva sibilato Giuliana, una volta. La sua voce poteva essere cantante come acqua sui ciottoli, oppure nera come bitume.

Lo prometto qui sul limite della vita, si dice Riccardo. Quando tutto sarà alle spalle, lei ed io andremo al San Carlo. Una serata magnifica, saremo l’invidia di tutti. Bussano alla porta, l’irrazional­e paura che sia già domattina.

All’Opera A volte lui ha sminuito quel desiderio come l’impuntatur­a di una donna capriccios­a

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