Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Lagioia e «La città dei vivi» Esce oggi il nuovo romanzo
Nicola Lagioia parla de «La città dei vivi», il suo romanzo-inchiesta sul delitto Varani
Dopo la vittoria del Premio Strega 2015 e tra gli impegni di direzione del Salone del Libro, col trasloco temporaneo a Torino, narrato in prima persona nel nuovo romanzo, la scrittura di quest’ultimo ha tenuto impegnato Nicola Lagioia dal marzo 2016, quando il caso Varani è scoppiato e gli si è attaccato alla pelle per inquietanti risonanze personali, evocando forme nuove del demoniaco. Di qui l’approccio autobiografico e da racconto cronachistico, con ampi lacerti documentari, processuali, giornalistici, televisivi, testimonianze raccolte in rete, nonché direttamente sul campo.
La scelta di sviluppare narrativamente un fatto di cronaca nera quanto risponde al bisogno di ridefinire il rapporto finzione/realtà in un oggetto culturale tradizionale insidiato dalla comunicazione multimediale?
«Quando mi metto a scrivere un libro non faccio questo tipo di ragionamenti. Sono molto lento, posso aspettare cinque o sei anni prima di pubblicare un libro, potrei impiegarne dieci in mancanza di qualcosa da dire. Per mettermi a scrivere un libro c’è bisogno insomma di un’urgenza molto forte. Tutto parte da lì. È impossibile tra l’altro soggiornare per anni e anni in una storia così buia e dolorosa (incontrare persone, intervistarle, raccogliere documenti e altro materiale) se non ne sei toccato nel profondo. Carlo Levi arriva a Grassano, e poi ad Aliano, si ritrova davanti a qualcosa per lui di importantissimo, allora decide di raccontarlo. Anna Maria Ortese arriva a Napoli da ragazzina, e questa esperienza la segnerà con violenza: Il mare non bagna Napoli nasce da questo. Così come La pelle
(nonostante Malaparte giochi continuamente tra il vero e il falso) nasce dall’esigenza di dire qualcosa sull’Italia e sull’Europa dopo il disastro della guerra. Gli scrittori, almeno quelli che apprezzo, lavorano più su queste spinte. Io ho sentito, sin dall’inizio, che la storia raccontata ne La città dei vivi mi apparteneva, per certi versi l’ho scritta sentendomi parte in causa». Eppure, prima ancora che il libro giungesse in libreria, è stata annunciata la serie TV…
«Negli ultimi anni sempre più il cinema e la televisione lavorano su soggetti non originali, spesso si ispirano alla letteratura e quindi diventa più facile che un libro venga opzionato in tempi brevi. Successe molto rapidamente anche con La ferocia, ma il film poi ha avuto un iter produttivo complicato e solo adesso sembra aver trovato la strada».
Il modello del romanzo d’inchiesta sembra aver condizionato stile e linguaggio, con un registro più lineare, distante da certi barocchismi dei romanzi precedenti che qualcuno censurava.
«Se vogliamo fare con precisione un discorso sullo stile, per La ferocia parlerei molto più di modernismo che di barocco, al di là dei risultati su cui ovviamente non tocca a me esprimere giudizi. Per ciò che mi riguarda, lo stile è funzionale a ciò che si vuole esprimere, non il contrario».
Il libro finirà tra le mani dei protagonisti sopravvissuti, dei parenti, di vittime e carnefici della vicenda. Rientra tra le sue finalità quella di esercitare una mediazione tra le parti, nel nome della giustizia riparativa evocata nel finale?
«Sarebbe molto bello, ma peccherei di arroganza se avessi questa pretesa. Purtroppo un vero incontro tra le parti non c’è mai stato, il papà di Varani ha detto più volte che ci è rimasto molto male per il fatto che nessuno lo abbia mai contattato, che nessuno gli abbia chiesto scusa, anche per interposta persona. È pure vero che questa è una tragedia per almeno tre famiglie, è complicato rompere il silenzio quando sei stretto dal dolore. Dunque, un libro come questo a cosa può servire? Può consolare? Illuminare? Aggiungere dolore al dolore? Cristallizzare? Può avere invece un potere trasformativo? Sono tutte domande che mi sono posto di continuo mentre scrivevo. Al di là degli auspici, non ho una risposta».