Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Archeologia a Canosa Dalla Fondazione segnali di crescita
Firmata la convenzione che renderà fruibile il sito di via della Resistenza
ACanosa basta cominciare a scavare in cantina per trovare degli autentici tesori archeologici. Un tempo bastava anche molto meno; tenere gli occhi aperti per distinguere i cocci di valore dai sassi, guardarsi un po’ intorno ed esplorare il terreno anche con pochi mezzi. Ma ciò che sta lì, sotto il naso, ha buone probabilità di non essere neanche visto se manca l’interesse e mancano gli indicatori per accenderlo, come un museo che funga da «vetrina» permanente e soprattutto una strategia di comunicazione ambiziosa ed efficace. Per lungo tempo l’immenso patrimonio archeologico di Canosa, risalente all’età magno-greca e romana e al Medioevo, è stato avvolto da un cono d’ombra che ne ha impedito la fruizione o anche solo la conoscenza. Eppure, durante l’Expo di Milano nel 2015 a rappresentare l’Italia archeologica c’era un grande vaso canosino, rinomata specialità degli artigiani locali; e i magnifici «ori di Taranto», che dopo aver girato il mondo fanno ora bella mostra di sé nelle teche del Museo archeologico di Taranto (il MarTa), sono stati rinvenuti almeno in parte nell’area di Canosa (precisamente nella Tomba degli ori, scoperta nel 1928).
Per riaccendere le luci sull’antica Canusium c’è voluta negli ultimi trent’anni la testarda attività di mecenatismo della famiglia Fontana, rappresentata prima da Michele e ora da suo figlio Sergio, noti ai più per il successo della loro impresa, l’azienda farmaceutica Farmalabor i cui stabilimenti hanno sede proprio a Canosa, ma altrettanto orgogliosi di un’altra loro creatura, la Fondazione archeologica canosina. Un case study di mobilitazione culturale dei privati e di virtuosa sinergia con la sfera del Pubblico, come testimonia una tesi di laurea magistrale in Management dei beni culturali sostenuta nel 2018 all’università di Macerata da Luigi Di Gioia, oggi pubblicata in volume.
I primi passi della Fondazione, che coinvolge altri cittadini canosini di buona volontà, risalgono al 1993. Ma è nel nuovo secolo, con l’adesione del Comune di Canosa nel 2002 e la stipula nel 2009 di un protocollo d’intesa con Ministero e Soprintendenza per la gestione di tutte le aree archeologiche del territorio, che si sono meglio definiti i suoi compiti e il suo raggio d’azione. Oggi, in attesa che aderisca anche la Regione, la Fondazione paga ad esempio il canone mensile di affitto del prestigioso Palazzo Sinesi che ospita finalmente «il» Museo archeologico nazionale di Canosa. Il suo prossimo investimento riguarda il sito archeologico di via della Resistenza, dove in un cantiere edilizio sono stati rinvenuti nel 2014 degli ipogei dauni con corredi funerari (oggi in esposizione al Museo) e un tratto stradale lastricato d’epoca romana, forse appartenente all’antica Canusium. La Fondazione, grazie anche alla disponibilità delle famiglie Tarantino, Leone e Di Nunno, che hanno messo a disposizione l’area di loro proprietà, si occuperà ora di gestire direttamente il sito rendendolo sicuro e accessibile ai visitatori. E se altri ipogei, come quelli di vico San Martino e della domus di Colle Montescupolo sono oggi fruibili, non pochi siti sono ancora off limits: basti citare, a mo’ di esempio, l’ipogeo dei Vimini, le terme Ferrara o l’ipogeo di via Legnano. Il lavoro, insomma, sarà lungo e impegnativo.
Per il presidente della Fondazione, Sergio Fontana, si tratta di dare continuità a una «visione» che ha alle spalle ambizioni e modelli precisi e può contare su alcuni gustosi aneddoti; come quello riguardante Lino Banfi che, nominato membro della Commissione italiana Unesco, ha potuto per la prima volta parlare della sua Canosa per lodarne le tombe «etrusche ed egiziane, comunque bellissime». L’ambizione, invece, è quella di ridare a Canosa quel posto che le era riconosciuto nel Settecento, quand’era meta imprescindibile degli studiosi e degli uomini di cultura europei (come l’abate di Saint-Non, che ne scrisse nei suoi quaderni di viaggio oggi editi da Kurumuny) nel loro «Grand Tour» della Magna Grecia. I modelli, infine, sono nella storia familiare e in quella italiana: da un lato il padre Michele, dall’altro Adriano Olivetti, pioniere negli anni Cinquanta delle buone pratiche della «responsabilità sociale d’impresa» per far crescere intorno a sé una comunità, e un intero Paese.
Il modello La sinergia tra i privati e il pubblico mostra in questo caso di poter funzionare davvero