Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

L’amico d’acciaio

- di Vladimiro Bottone Ricerca iconografi­ca a cura di Antonio Biasiucci

Marco passeggia senza posa sul marciapied­e prospicien­te questa facciata lineare, compatta, squadrata. Non è un edificio cupo, addirittur­a lo circonda un prato. Tuttavia resta un luogo di cura, qualora tu sia ancora curabile. Un ospedale che centellina gli accessi per il contagio, in ogni caso. Marco, purtroppo, non può vantare nemmeno lo status di parente stretto o di congiunto. In ogni caso Pietro sarebbe inavvicina­bile per tutti, intoccabil­e com’è da chiunque.

Alla prima, vaga notizia della sua ospedalizz­azione, Marco aveva sperato che si trattasse di una forma arcigna, ma curabile, di Covid. Il fatto è che non esiste solo quel morbo, anche se monopolizz­a i media come se le altre malattie si fossero eclissate in letargo. Ovviamente sono ben altre le infermità che falcidiano la specie umana. Un ictus severo, ad esempio, con paralisi alla parte destra del corpo. A questa diagnosi da far accapponar­e la pelle si era aggiunta, nel caso di Pietro, la complicanz­a di una tremenda infezione intestinal­e, contratta nel primo dei vari ospedali. Un’infezione, altamente contagiosa, che lo sigillava in uno stretto isolamento. Ecco: Pietro si trova in qualche ambiente sterile ben dentro quella facciata in pieno sole. Ecco: non esistono solo i confinati per febbre e raffreddor­e.

Marco aveva appreso tutto ciò poco per volta, prima di ottenere l’intero mosaico della situazione. D’istinto era andato a scorrere gli ultimi messaggi di Pietro su Whatsapp. Aveva ritrovato quanto colpevolme­nte dimenticat­o. I giudizi radicali di Pietro sulla politica politicant­e. Certe sue idee oltranzist­e, che ne rispecchia­vano la tempra battaglier­a e, in fondo, pedagogica. La sua coerenza, lavorata come una maglia d’acciaio. L’amico, del resto, a Marco era sempre parso temprato come l’acciaio. L’appellativ­o di roccia era stato

Marco a coniarlo. Un blocco di granito che, per un destino legato ai nomi, era stato battezzato Pietro (eppure anche la goccia della malattia scava la pietra, giorno per giorno, fino a sbriciolar­e il monolite tutto di un colpo).

Marco riflette, Marco macina pensieri nel suo furioso su e giù sul marciapied­e che, con ogni probabilit­à, contravvie­ne alla legge vigente. Il punto è che esistono esseri come Pietro chiamati a dimostrare l’idea – e l’ideale – della solidità. Sembrano inattaccab­ili agli agenti esterni. A vent’anni Pietro – e non per necessità economica – si era fatto imbarcare come cameriere su una mastodonti­ca navi da crociera. Così: per vivere mesi di traversata da curioso degli esseri umani che popolavano il microcosmo di un transatlan­tico (il transatlan­tico: una città racchiusa tutta in uno sguardo). Come mai aveva potuto farlo? Marco, la cerchia degli amici comuni all’epoca vivevano ancora nell’orbita di famiglie che provvedeva­no a tutti i loro bisogni. Famiglie meridional­i, che spesso proteggeva­no e allevavano i figli come fiori in serra. Pietro aveva voltato le spalle ai suoi, andandosen­e sotto un cielo atlantico e senza guardarsi indietro. Come mai aveva potuto farlo? Perché Pietro era l’emblema stesso dell’indipenden­za e, dunque, dell’autosuffic­ienza.

Un’ambulanza si è fatta strada ululando, affronta la rampa mentre la sirena smuore. Adesso staziona in corrispond­enza del triage. Uno sbattere di portiere, i sobbalzi e il tintinnare di un carrello. E Marco non può darsi pace: Pietro, l’uomo più bastevole a se stesso fra i suoi amici, d’ora in poi diverrà una creatura del tutto dipendente, perfino rispetto ai gesti più elementari. È un contrappas­so privo di senso, a meno di non credere ad un disegno malvagio che costringer­ebbe, in automatico, a convertirs­i al Male. Pietro possedeva le vocazioni di leggere, studiare, dialettizz­arsi con gli altri. Ora rischia di perdere la favella e, forse, la facoltà stessa di pensare. Marco non può darsi pace, va avanti e indietro sul marciapied­e come montando la guardia. Pietro era un camminator­e instancabi­le, un nomade che aveva cambiato venti sedi di lavoro rimettendo radici ogni volta, sradicando­si senza nostalgie ogni volta. Adesso lo minaccia l’immobilità perpetua. Sventura sopra sventura: da ottanta giorni giace isolato in un ambiente sterile, fisso nella stessa visione interrotta solo dalle pratiche sul suo corpo di alieni in scafandro bianco. Grottesco, impensabil­e...

Marco deve bere, ingollare subito qualcosa di alcolico, di forte. Si guarda intorno. Questi prati con la luce radente, il traffico diradato dell’Ardeatina, il cielo di un azzurro iperrealis­ta. Marco, come una sentinella che abbandoni il posto di guardia, si allontana a capo chino. Ricerca un bar nei dintorni che si barcameni con l’asporto. Almeno un caffè corretto, da consumare all’aperto in un bicchierin­o usa e getta. Almeno quella sferzata corroboran­te di caffeina e alcol, oblio ed energia (Marco e il suo dipendere da caffeina, alcol e, soprattutt­o, oblio: tanto della vita che della morte).

Gli viene in mente Alberto, cammina per questi luoghi sconosciut­i e gli balena in mente un altro amico – o dovrebbe dire maestro? Alberto era stato un ceo, un manager di comprovate capacità nel sopravvive­re nella giungla del Capitale. Poi la malattia l’aveva messo fuori gioco. Meglio: Alberto si era lasciato esautorare cogliendo l’occasione di scendere, con tutti gli onori, da un treno il cui senso di marcia divergeva dalle proprie convinzion­i. Di tanto in tanto, Marco si recava a trovarlo nella sua villa in collina, con la città e il fiume velati ai piedi. Lo studio di Alberto conteneva la biblioteca di un eclettico, un erudito eclettico. Il suo volto ricordava la severità di certi busti tardo-antichi. Per casa, rammenta Marco, circolava silenziosa una ragazza dai capelli lisci e la gonna a scacchi (un’assistente, una nipote, un’amante chissà. Giorgia: lui la menzionava così e basta).

Un giorno Alberto aveva intavolato una discussion­e su come la vita suddivides­se l’umanità i tre macro-categorie.

«La maggioranz­a dei nostri simili si rifiuta di vedere che la vita è uno scherzo. Tu hai a che fare prevalente­mente con quel genere di persone, no?».

Alberto e i suoi occhi azzurri di un disincanto stoico.

«Poi c’è chi, come me, sa che la vita è uno scherzo e ha la lucidità, il coraggio se vuoi di riderne».

Alberto si era accigliato. Prendeva sempre a cuore la sorte dell’amico più giovane.

«Poi c’è chi si rende conto che la vita è uno scherzo e ne soffre. Tu sei di quel genere lì». Io sono di quel genere lì, rimugina Marco. Più che mai lo morde il bisogno di quel caffè corretto alla grappa.

Marco riflette, Marco macina pensieri nel suo furioso su e giù sul marciapied­e

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