Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Strage di mafia, inflitto l’ergastolo al basista

Oltre al boss e al cognato, nell’agguato sul Gargano uccisi due fratelli perché testimoni

- An. Ba.

FOGGIA Carcere a vita. È la condanna inflitta dalla Corte di Assise di Foggia al 40enne Giovanni Caterino, unico imputato della strage di mafia che si è consumata a San Marco in Lamis il 9 agosto del 2017. Vennero assassinat­i il boss di Manfredoni­a, Mario Luciano Romito, obiettivo dei sicari, il cognato Matteo de Palma e i due fratelli agricoltor­i Aurelio e Luigi Luciani, vittime innocenti di mafia, uccisi perché testimoni involontar­i dell’agguato. La sentenza è arrivata nel tardo pomeriggio di ieri dopo una camera di consiglio durata poco più di tre ore.

Secondo l’accusa Caterino, detenuto dal 16 ottobre del 2018, era il basista del comando armato: nei giorni precedenti all’agguato aveva pedinato il boss 52enne scarcerato sei giorni prima della sua morte. Durante la requisitor­ia la pm antimafia, Luciana Silvestri, che aveva chiesto la condanna all’ergastolo, ha ricostruit­o tutte le fasi dell’inchiesta. Oltre alle intercetta­zioni ambientali e i tabulati telefonici, agli atti del processo ci sono le analisi gps sulla macchina, una Fiat Grande Punto, che l’imputato avrebbe utilizzato per pedinare il boss di Manfredoni­a. In aula si è discusso anche dell’agguato del 18 febbraio 2018 al quale Caterino riuscì a sfuggire: un agguato voluto dai clan Romito e Moretti della Società foggiana per vendicare quello del boss Luciano.

«Dopo più di tre anni – ha detto Arcangela Luciani la moglie di Luigi - inizio a respirare un po’ di aria pulita. Peccato che sono da sola e non con mio marito. Oggi appena andrò a casa abbraccerò ancora di più mio figlio. La vita di due uomini non può finire così, adesso dovremmo raccontare ai nostri figli perché non hanno un padre. Bisogna dire basta a tutta questa violenza. La Capitanata ora deve dire basta e alzare la testa».

«Questo è un processo indiziario - ha dichiarato invece il professor Pietro Nocita, difensore di Giovanni Caterino che aveva chiesto l’assoluzion­e cioè non c’è una prova rappresent­ativa diretta come l’arma del delitto, la pistola fumante. In questo processo si parla di spunti investigat­ivi, da qui se io non traggo la prova, la prova stessa resta uno spunto. Pur di trovare un soggetto autore di questo fatto che ha molto scosso l’opinione pubblica sono partiti da spunti investigat­ivi, che significa che io sospetto che lui sia il colpevole però poi non lo dimostro. Il giorno della strage - ha precisato l’avvocato - non è dimostrato che l’imputato fosse nella macchina che seguiva il boss Mario Luciano Romito, perché non vi è nessuna prova della sua presenza».

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Il luogo della strage nelle campagne di San Marco in Lamis

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