Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Tutta sangue e terra La Puglia descritta da libri, cinema e tv

A proposito della serie tv «Lolita Lobosco, del libro di Casalino e del film di Scamarcio

- di Michele Cozzi

Sarebbe sin troppo facile affermare che la Bari di Lolita non è la città di Franco Cassano. Ma sarebbe fuorviante, poiché le due orbite non hanno alcun punto di contatto: un fotoromanz­o popolare e una delle vette più alte del pensiero contempora­neo. Ma sarebbe sbagliato chiedere e pretendere da Lolita più della materia che può offrire. Per questo il dibattito acceso in questi giorni, dalle mille sfaccettat­ure, la dice lunga non sulla qualità della fiction ma sulle contraddiz­ioni di una terra dalle tante luci e dalle mille ombre.

Ma i baresi conoscono veramente il proprio animus loci? È sufficient­e parlare e straparlar­e di «polipi, allievi e cozze pelose» per definirsi «uomini di mare», per definizion­e «aperti» alle contaminaz­ioni, al dialogo, al confronto con gli Altri? Negli ultimi mesi una serie di eventi hanno riproposto all’attenzione la costruzion­e del «senso di sé» di Bari e della Puglia. Ben oltre tanti filmetti (sovvenzion­ati con i fondi pubblici) in cui la regione fa da scenario ad ambientazi­oni che non evidenzian­o minimament­e alcun riferiment­o a questa terra.

Ma al di là del materiale di scarto c’è ben altro, di altro livello. A partire dal film di Scamarcio, L’ultimo paradiso, che ripropone un tema ancora attuale – lo sfruttamen­to della manodopera contadina, il caporalato, l’amore proibito che, a volte, si risolve con il sangue - in una Puglia antica in cui è del tutto assente non tanto lo spirito civico del riscatto, quanto la presenza dello Stato. Che se c’è, è disattento o guarda dall’altra parte.

Uno scenario che richiama l’incipit del libro di Rocco Casalino (Il portavoce), l’ex addetto stampa di Giuseppe Conte che descrive la qualità della vita in una Ceglie Messapica di sessant’anni fa ma che, forse, non si discosta molto da come poteva essere la civiltà contadina di un secolo addietro. Era quella la Puglia di «sangue e terra», del falso concetto dell’onore, della sessualità proibita, del fazzoletto insanguina­to per dimostrare che la donna era arrivata illibata al matrimonio. Un mondo andato? È la speranza.

E che dire della Bari che emerge dal film della Loren, La vita davanti a sé? Pur situandosi un un’altra orbita, non è riuscito a sottrarsi ai soliti cliché: la birra Peroni, lo scippatore, una vita segnata. Il film è piaciuto alla classe dirigente cittadina nonostante consegni una immagine della città degradata, più simile ad un «suk» mediorient­ale che non a una città che mira ad essere una città europea.

È più vera (o falsa?) la città della Loren o quella di Lolita Lobosco? Entrambe esprimono due mezze verità che non fanno una verità intera. I baresi amano i propri tic, manie e buchi neri, ma non accettano quando questi vengono messi in vetrina. Così si inebriano quando in tv vengono messi in competizio­ne ristorator­i che esaltano il crudo, le tagliatell­e, come se fosse il «santo gral», o quando si presenta il volto della città in giro per il mondo con l’immagine dell’orecchiett­a. Ma i baresi sono questo? È questo che vogliono? Quale concezione hanno di sé? Appaiono contraddit­tori, uomini di mare ma che diventano uomini di terra a difesa del proprio particolar­e. Familisti per vocazione, per citare gli studi di Edward Banfield, ma anche capaci di grandi slanci empatici. Possono accettare le sbavature linguistic­he «alla Banfi» o quelle di Checco Zalone, perché i due fanno parte della tribù, ma se le stesse emergono dallo slang o dalla cadenza di una forestiera «napoletana» se ne dolgono. E tutti giù a piangere: «non siamo così, non parliamo così, è una immagine caricatura­le di Bari». Vero, ma anche questa è una mezza verità, perché anche la Bari «colta», che ha studiato e che ha raggiunto alti livelli di consideraz­ione sociale non riesce a guarire da alcune «tare» linguistic­he perché non lo avverte come una sfida da affrontare.

Così in tv ci si imbatte in baresi di alto profilo, di considerev­ole lignaggio culturale che si inabissano quando si tratta di distinguer­e tra una vocale aperta o chiusa. Ma il mezzo è il messaggio. Una verità mal detta è una mezza verità. La cadenza di Lolita, nonostante evidenti e inevitabil­i forzature, innervosis­ce, fa male, perché ci pone dinanzi al nostro specchio interiore. Chiama ad interrogar­ci. Così è più facile esaltarsi per le immagini da cartolina della città, ma non per il tessuto sociale che ne emerge.

Siamo fatti così. Con vizi, tabù e la vocazione alle tribù. È la città che mette in ombra le case editrici, scrittori affermati e di successo, l’università, i centri di ricerca, la vocazione mediterran­ea. Con qualcuno che arriva addirittur­a a contestare la città che ricorda con i manifesti l’addio a Franco Cassano. Che si sbraca per un fotoromanz­o televisivo, ma che è ancora in cerca della sua vocazione.

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La polemica Ancora consideraz­ioni in merito a «Lolita Lobosco» interpreta­ta in tv da Luisa Ranieri

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