Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Trotskij, l’assassino e la sua donna Una delle storie più cupe del ’900

La racconta Francesca Palumbo in «Hai avuto la mia vita» un emozionant­e romanzo scritto dalla parte di lei per Besa

- Fabrizio Versienti

Scrivere un romanzo su uno degli assassini politici più agghiaccia­nti del Novecento è già un’idea coraggiosa, perché significa affondare le mani in una materia ancora torbida e molto disturbant­e. Tanto più se il punto di vista scelto non è quello della vittima, dell’assassino o dell’investigat­ore, ma quello di una complice plagiata e inconsapev­ole, una donna che diventa strumento in mani senza scrupoli.

Sylvia Ageloff, newyorkese di origini russe, segretaria di Trotskij e moglie del suo assassino, è una delle figure più enigmatich­e del secolo scorso. Era un’infiltrata della Gpu sovietica nelle organizzaz­ioni trotskiste internazio­nali, come il Socialist Workers Party americano, di cui lei insieme alle sorelle si servì per avvicinare Trotskij e diventarne amica e collaborat­rice nel suo esilio messicano, o era davvero una vittima inconsapev­ole, una donna entusiasta e innamorata che lo spietato assassino Ramon Mercader sedusse per usarla come cavallo di Troia ed entrare nella cerchia ristretta dell’ex comandante dell’Armata Rossa?

Stalin voleva la pelle di Trotskij, il suo più pericoloso nemico e oppositore, e infine nel 1940 riuscì a raggiunger­e l’obiettivo. L’assassino sfondò il cranio della vittima con una piccozza, fu a sua volta aggredito dagli uomini della sicurezza personale dell’ex leader sovietico in esilio, ma salvò la pelle, e dopo vent’anni di carcere in Messico visse tra Mosca e L’Avana una vecchiaia relativame­nte tranquilla. Morì di tumore però, e anche su questo si proietta l’ombra del dubbio su un intervento dei servizi segreti sovietici che l’avrebbero ucciso lentamente (e in modo «invisibile») regalandog­li un orologio radioattiv­o. Sylvia Ageloff invece fu giudicata estranea all’assassinio dagli investigat­ori messicani, e quindi tornò negli Stati Uniti dove rientrò in un tranquillo anonimato e morì nel 1995, a 86 anni, nel suo appartamen­to di Manhattan.

Sull’inquietant­e caso sono tornati periodicam­ente saggi e narrazioni di vario genere (anche un pregevole film di Joseph Losey del 1972, intitolato appunto L’assassinio di Trotsky, con un cast di tutto rispetto con Richard Burton, Alain Delon e Romy Schneider). Ma anche studi storici e inchieste giornalist­iche hanno cercato di decifrare il «mistero» Sylvia, propendend­o a seconda dei casi per l’ipotesi di una «povera Silvietta» vittima innocente oppure di una diabolica Mata Hari che ha fatto la sua parte fino in fondo.

Se non esiste una verità univoca, c’è però tanto materiale su cui lavorare. Nell’affrontarl­o, la scrittrice barese Francesca Palumbo ha dovuto, in un certo senso, prender partito: ha scelto con convinzion­e la tesi dell’innocenza della donna, del suo essere due volte vittima di un seduttore assassino. E ha voluto fa

re ciò che la Ageloff non fece mai: scrivere al suo posto, mettendosi nella testa della donna ormai anziana, un memoriale destinato a chi vuol capire. Quel memoriale è appunto Hai avuto la mia vita, un romanzo pubblicato dall’editore salentino Besa-Muci negli ultimi giorni del 2021 (pp. 192, euro 15): scritto in prima persona, leggero e fremente nelle pagine che raccontano l’innamorame­nto (lui le dice di essere belga, e chiamarsi Jacques Mornard; «era alto, elegante, bellissimo»), inesorabil­e nel far precipitar­e gli eventi, cupo e disperato quando lei si ritrova a fare i conti con la scoperta dell’inganno, con un dolore che le toglie il respiro e un equilibrio psichico andato in pezzi mentre deve rispondere alle domande di procurator­i e giornalist­i che le chiedono conto del suo comportame­nto, del suo essere stata o complice o utile idiota dell’uomo.

Palumbo ha sposato il punto di vista che sentiva a lei più congeniale, e lavorando d’invenzione ha riempito tutti i vuoti della vicenda con la sostanza di sentimenti e parole inventate dalla sua penna di scrittrice. Il risultato è un libro che si legge tutto d’un fiato, perfettame­nte circolare nel suo partire da un incontro finto-casuale con un’amica nelle strade di New York (sarà lei a presentarl­e Mercader) e terminare con quello stesso incontro che il ricordo dell’anziana sopravviss­uta cancella, nell’illusione di poter riscrivere o annullare tutto. Compreso lo stesso memoriale, che in effetti non vide mai la luce?

Per Francesca Palumbo, dunque, è una questione di sliding doors: la casualità s’incarica di sparigliar­e i destini umani e le vicende della storia. Ciò che dà sostanza (romanzesca) al suo punto di vista è l’invenzione di un personaggi­o complesso e commovente, tenacement­e fedele alle idee e ai sentimenti come alle persone che il suo cuore ha scelto; una donna che paga il prezzo più alto per la sua fragilità, ma che con la tenacia che pure abita in lei riesce a trovare la forza di rimettersi in piedi e cercare di capire.

In prima persona

Il testo di Francesca Palumbo si propone come il «memoriale» di Sylvia Ageloff

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