Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
QUANDO IL DECLINO DIVENTA DI STATO
In un tremendo gioco dell’oca che corre sul destino di una città, si torna al punto di partenza, cioè il commissario e l’amministrazione straordinaria, che dopo il sequestro degli impianti del 2012 aprì ufficialmente la stagione dell’Agonia. Era la terza puntata della saga, iniziata negli anni ’60 con la fiorente estate dell’Italsider, quando lo Stato italiano era un re Mida che trasformava in oro l’acciaio, e proseguita con quella molto più opaca dei Riva. Per onestà intellettuale e storica va detto che il bene non si può distinguere così nettamente del male. Ai tempi dell’Italsider, punta di diamante delle partecipazioni statali nel Mezzogiorno, gli stabilimenti non emettevano profumo di lavanda e la gestione economica risentiva dei vizi tipici dell’impresa pubblica. Solo che erano tempi di euforia e di debito pubblico gestito con la leva monetaria, e i pericoli per l’ambiente non erano ancora così noti. L’irruzione dei Riva si innestò su uno scenario economico irrigidito dell’euro, e i nuovi padroni pretesero di stroncare con le maniere forti ogni residuo del passato: gli sprechi e le clientele, il rapporto con il territorio legato alle imprese dell’indotto, ogni forma di dissenso. Sono i tempi del muro contro il sindacato e della famigerata palazzina LAF. Soprattutto, dagli anni ’90 i danni per la salute provocati dagli altoforni iniziano ad essere fortemente evidenti. È lì che si innesta il sistema corruttivo messo a nudo dall’inchiesta Ambiente Svenduto, pur fra molte incongruenze e abusi fra cui inquisire senza prove i vertici politici.
È qui, siamo nel 2012, che la stagione dell’Agonia entra ufficialmente in scena. Un decennio convulso che ha portato ad un ritorno alle origini, cioè la proprietà pubblica, in condizioni opposte a quelle degli anni ’60: con la produzione e l’occupazione ai minimi, debiti spaventosi, impianti obsoleti. I diversi governi hanno alternato norme mirate contro la magistratura, quasi sempre appoggiata dalla politica locale, ad una cedevolezza sconcertante verso il tanto invocato partner privato. Come osserva oggi Fabrizio Bentivogli, ex leader dei metalmeccanici Cisl, «dal 2019 è chiaro che ArcelorMittal mirava solo a minimizzare i costi dell’uscita… l’ex Ilva andrà sotto i 3 milioni di tonnellate di acciaio prodotto all’anno, in uno stabilimento che sotto i 5-6 milioni di tonnellate produce in perdita». Questo è, in due parole ed in cifre, il pessimo risultato di un percorso segnato da errori e impegni disattesi sia dallo Stato – lo scudo penale, impegno che non andava preso sin dall’inizio perché offensivo per i tarantini e per il diritto – sia dal gruppo franco-indiano: investimenti, risanamento ambientale, pagamento dei debiti. «Acquisiamo l’Ilva per aiutarla a diventare la migliore azienda in Europa», diceva nel 2017 Lakshimi Mittal.
Ed oggi sulla testa dello Stato italiano pende anche il rischio di una causa per danni da 100 milioni da parte del gruppo privato in uscita, nonché gli esiti di una nuova inchiesta-ambiente, dopo l’ordinanza di chiusura del sindaco di Taranto, la sospensiva del Tar con le ispezioni dei carabinieri del Nucleo ecologico e l’attesa della pronuncia della Corte di giustizia europea.
Alla proposta di Invitalia di ricapitalizzare portando la quota pubblica in maggioranza, ArcelorMittal ha risposto con un secco no. Per poi far trapelare, il giorno dopo, una correzione di rotta che suona beffarda: i 320 milioni che mette lo Stato italiano vanno bene, ma il controllo deve restare a metà. Come a dire: ok a nuovi soldi pubblici, a patto di restare nella plancia di comando per continuare a controllare la paralisi della siderurgia italiana. Come spettatori, ci sono i cittadini. In qualsiasi parte del pianeta, se muore un bambino si ferma tutto. Solo a Taranto, succede solo che cambia il film. Si entra nel ciclo di un lento crollo, in cui l’inquinamento per cui i privati furono inquisiti e cacciati non si ferma, ma nello stesso tempo il conto economico del declino diventa interamente pubblico.