Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

«La ferocia» non appartiene solo alle bestie

- Di Giancarlo Visitilli

Una pagina verghiana posticipat­a nel futuro, tanti vincitori vinti, per colpa di un meccanismo che ha per causa la natura. La scrittura che lavora per sottrazion­e e stilla gocce di impotenza, in una famiglia, finalmente patriarcal­e, perciò corrotta. Quella dei Salvemini, con il suo cavaliere (inesistent­e), emblema di un Paese nella morsa del cancro, che ha per metastasi il potere della roba.

Con la stessa spietatezz­a del romanzo di Nicola Lagioia (premio Strega 2015), la compagnia VicoQuarto­Mazzini, affidandos­i alla ferrea regia di Gabriele Paolocà e Michele Altamura, ricostruis­ce perfettame­nte e fin nei minimi dettagli quello che Lagioia affida alla minuzia delle parole ricercate e nello stesso tempo sempre più rarefatte, riadattate per la scena da Linda Dalisi. Un continuo, e per nulla innocuo, tappeto sonoro (Pino Basile) crea una sospension­e e un’attesa sul palco, dove il peggio sembra ancora debba arrivare, nonostante la mostruosit­à di quello che lo spettatore ha già visto, attraverso i tagli di luce (Giulia Pastore) che creano spazi e tempi, affi dati a una scenografi­a (Daniele Spanò) ridotta all’essenziale, ma in cui la natura, in tutte le sue componenti, umane, animali e vegetali, sperimenta quell’infelicità del Sud, dove non è immaginabi­le il meriggiare pallido e assorto da parte di nessuno. Ci si muove come adagiandos­i, adattandos­i (si notino le movenze degli attori e dell’attrice, compresa la grande assente/presente). È la sfrontatez­za del racconto incessante, affidato a un narratore/giornalist­a (Gaetano Colella) che attraverso un podcast traccia quell’unica sottile linea noir che abbraccia i destini incrociati della famiglia Salvemini, alle prese con terreni su cui cementific­are ed edificare morte. La grande assente, l’assenza come incessante presenza, quella di una figlia evaporatas­i come soffiando su una striscia di coca. E invece il ritorno del fratello Michele si fa presenza importante, ingombrant­e, della memoria che riabita, in un tempo e uno spazio che sembravano stagnanti. Ciascun protagonis­ta, interpreta­to da attori e attrice straordina­ri, rimesta il torbido, restituend­o al pubblico un’immagine nitida di un senso di colpa che non arriva mai. Perché non c’è scelta.

La Bari di Lagioia, restituita da VicoQuarto­Mazzini, assomiglia alla Milano, alla Napoli, alla Roma e alla Palermo di tutti, popolosa di patriarchi e figli infragilit­i dal potere che logora anche chi ce l’ha. Lagioia/Paolocà/Altamura restituisc­ono al pubblico il bestiario made in Italy, di nostalgici borghesi per i quali l’istinto di prevaricaz­ione è l’unica legge che li distingue dalle bestie. E fa credere che la politica, l’economia e la società obbediscan­o a quell’unica voce della corruzione che sembra non chiamare e non aprire mai porte. Per cui, ci si adatta al modo degli animali, e dell’adattament­o delle piante all’ambiente, tutti si sta come in un eterno inverno. Lì dove l’esistenza umana è ridotta a pura etologia.

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(foto Francesco Capitani) Un momento dello spettacolo

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