Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Paolo Panaro: «La mia Babette? Una metafora sul potere dell’arte»
Sul palco anche il pianista ucraino Alexander Romanovsky: «La musica dipinge le emozioni» L’attore barese in scena oggi e domani al Piccinni con il capolavoro scritto da Karen Blixen
Quell’arte che può aprire dialoghi con l’infinito. Un’arte un tempo sottovalutata, quella culinaria, oggi quanto mai celebrata, «forse troppo, al punto da essere diventata una moda». Il pranzo di Babette di Karen Blixen adattato da Francesco Niccolini è un’ulteriore tappa del percorso dell’attore Paolo Panaro attraverso i grandi testi della letteratura riproposti in teatro. Questa volta al Piccinni di Bari per una produzione della Compagnia Diaghilev che sarà in scena stasera alle 21 e domani alle 18 per la stagione di prosa del Comune di Bari e del Teatro pubblico pugliese.
Attore e pianoforte, Panaro e l’ucraino Alexander Romanovsky, un anno dopo Morte a Venezia di Mann si troveranno insieme per uno spettacolo che parla anche della paura dei sentimenti, di occasioni perdute e di rimpianti.
Panaro, il film di Gabriel Axel, premio Oscar nel 1988 come miglior film straniero, è stata un’ispirazione?
«Non per la messa in scena di oggi, ma ho scoperto il testo attraverso il film. Ricordo che quando l’ho visto mi commosse molto, come accadeva spesso con i film di dell’epoca. Quell’anno uscì anche Oci Ciornie, un altro film che ha segnato la mia giovinezza. La visione mi fece scoprire lo stile della Blixen, davvero niente male».
Cosa rende stimolante la storia di una cuoca francese in fuga che trova rifugio
in una comunità religiosa su un fiordo norvegese?
«Questo è un racconto sul grande potere dell’arte, quella dei fornelli. Di un’arte non scontata, meno raccontata, almeno a quei tempi. Questa donna fuggita dalla Francia per motivi politici si ritrova a vivere in mezzo a un gruppo di puritani che sono sinceramente alla ricerca di Dio. Dopo anni non vivono più una situazione idilliaca. La preparazione di un pranzo francese riesce a riappacificare gli animi in lotta tra loro. È una metafora splendida: a volte Dio si nasconde dove meno te lo aspetti. L’arte culinaria ha il potere di dischiudere una porta sull’invisibile».
In che modo si inserisce la musica in questo contesto?
«C’è un pretesto, uno dei personaggi del racconto, Achille Papin, è un baritono e rappresenta quella mondanità che le due sorelle puritane che ospitano Babette hanno rifiutato. Le musiche sono scelte per dipingere le emozioni dello spettacolo, in particolare Bach che ci racconta proprio quel trasporto verso il trascendente, una tensione mistica».
Una tensione che per la comunità significa soprattutto rinunce.
«Non credono nella realtà, nei piaceri della terra ma mirano alla nuova Gerusalemme, fanno una vita francescana di silenzio, rigore, nessun vizio, lettura della parola, un clima antimoderno agli antipodi rispetto a quello che viviamo oggi pieno di colori e musica ovunque».
Finché il buon cibo non arriva a scombinare tutto?
«La parte interessante non è tanto la preparazione delle pietanze quanto il rito dello stare insieme tramite il cibo, un elemento fisico in grado di trasformarti l’anima. Blixen scrive parlando della cuoca Babette: ‘Un tempo riusciva a rendere un pasto qualcosa in grado far perdere i confini tra corpo e spirito’».