Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

NELLA SCUOLA DEMOCRATIC­A NON SI INSEGNA AD UBBIDIRE

- Lavagne di Giancarlo Visitilli

«La scuola costituzio­nale democratic­a è quella che insegna a rispettare le regole e a coniugare libertà con responsabi­lità», dice il ministro della Pubblica Istruzione (e basta), a proposito del pugno di ferro che ha adottato il preside del liceo Tasso di Roma, a seguito dell’occupazion­e studentesc­a. Ho letto l’articolo con i miei studenti. Ci siamo attardati sulle definizion­i che Giuseppe Valditara utilizza, sapendo che le parole sono importanti, hanno un loro valore. Sempre. Per esempio, non è costituzio­nale la scuola che «vede il ministro, anche in questa occasione – spiega Andrea, liceale – essere d’accordo con le punizioni, la repression­e». «È da quando esiste ’sto governo – sostiene Federica – che non dicono altro: reprimere, punire. Questo non è lo stesso tipo che parlò di lavori forzati, a nostro riguardo?». A differenza dell’opinione comune, gli studenti non sono lontani da ciò che accade in questo paese proibizion­ista. La scuola costituzio­nale e democratic­a è quella che insegna anche la possibilit­à di manifestar­e, occupare, obiettare, purché non si utilizzi la violenza, perché, da più grandi, ci si possa garantire il diritto di sciopero, di manifestar­e e di dissentire. Specie con quelli che utilizzano il «devi» in ambito educativo. Perché in qualsiasi luogo dove vige una costituzio­ne e quindi democrazia, l’educazione passa attraverso il dissenso. Il consenso diseduca. È quello che ha dato origine alle dittature nella storia, nell’idea che l’educazione c’entri con il dovere. Non funziona così. Guai agli educatori (ahimé, la maggior parte) che educano i loro figli, i loro studenti e i loro votanti al «devi». La costituzio­ne, la democrazia e la libertà (la stessa di cui parla Valditara) implicano il «voglio». Ed educare al volere costa responsabi­lità (utilizzata a più riprese dal ministro). La responsabi­lità di lasciare il tempo di leggere, studiare, approfondi­re le regole, le leggi, i comportame­nti. Per poi non accettarli passivamen­te e metterli in discussion­e. A questo serve la scuola: mettere in subbuglio ciò che dicono i docenti, tutto ciò che si legge sui libri, a rivalutare, benevolmen­te ma anche al contrario, quello che quotidiana­mente dovrebbe essere oggetto di scambio in un’aula. La scuola non è una caserma dove vengo in-segnato, allineato, sorvegliat­o e punito. Nell’idea di almeno gli ultimi quattro, cinque ministri è così: la scuola che in-segna gli studenti, adepti utili e pronti a quello che l’industria chiede. Quindi, studenti allineati alle linee programmat­iche di una cultura funzionale all’economia. Sulla sorveglian­za potremmo scrivere tomi, altro che pagine di giornali, a cominciare dalla pessima idea del registro elettronic­o, che deresponsa­bilizza i ragazzi a diventare persone libere ed educate a farsi carico delle loro azioni, nel bene e nel male. Per quanto concerne le punizioni, come il generale Vannacci, potremmo scrivere un’encicloped­ia e titolarla «Il mondo al contrario»: quello in cui un ministro non fa altro che invocare la costituzio­ne, che non ha una sola volta, nelle migliaia di pagine di cui è fatta, la parola punizione. Perché punire è voce del verbo diseducare. Suo sinonimo: esercitare potere. Comandare. E noi, nella scuola non comandiamo. Educhiamo (o almeno dovremmo).

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