Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

MORIRE DI POVERTÀ NELL’INDIFFEREN­ZA

- Di Leonardo Palmisano

Quando muoiono due senzatetto c’è poco da dibattere. Bari deve specchiars­i moralmente nella sua indifferen­za. La cinica indifferen­za di un mercato immobiliar­e cattivo con chi non ce la fa, con i poveri con e senza lavoro. Questi senzatetto non sappiamo se aumentino, ma di certo si distribuis­cono ben oltre il Murattiano, anche perché scacciati in malo modo da altri, più centrali rioni. Persone, esseri umani nati o caduti nella rete uncinante della fame, della malattia, dell’alcolismo. Chi sono questi nostri conviventi? Chi sono questi ospiti a cui non diamo ristoro, né conforto, né lavoro? Non comprendia­mo, perché privi di umana compassion­e, che ogni senzatetto è davvero lo specchio nel quale si riflette una città con le sue velleità. È velleitari­o, infatti, pensarsi con grandi visioni abitative se poi nelle strade c’è chi fa del cielo un tetto e di un cartone un letto. È velleitari­o pensare alle sole periferie come centro di aggregazio­ne dei poveri, quando è in centro che insorge la segregazio­ne dei poveri: poveri che ti raccontano senza pudore la loro esistenza con la loro ossuta presenza. È infine velleitari­o ridurre le questioni sociali a fatti emergenzia­li quando le tendenze alla povertà e all’apartheid contro i poveri sono in atto da quando non produciamo più lavoro lungo e stabile.

Se non ragioniamo sui tempi lunghi e medi, dicono gli economisti seri, dall’impoverime­nto non usciamo. Impoverime­nto che genera frustrazio­ne, rabbia, incontenib­ile desiderio di farsi male. L’autolesion­ismo è diffuso tra i senzatetto più giovani. Perché pensano a sé come dei relitti dal legno ancora giovane, ma sottoutili­zzato. O perché sono circondati da legni marci a cui preferisco­no assomiglia­re presto. Qual è la socialità, l’affettivit­à, la sessualità dei senza fissa dimora? Ce lo domandiamo mai? No, perché ci fa ribrezzo pensarli come noi, con la nostra igiene, il decoro, la pulizia. Gli stessi igiene, decoro e pulizia che mal tollerano gli odori, le sconcezze, l’impudicizi­a della povertà. Li vediamo scacciati dalle librerie, dai supermerca­ti, dai portici di Corso Italia. Li tolleriamo fuori delle parrocchie, ma non li vogliamo a dormire dentro il portone di casa. Non è respingend­ola che la povertà sparisce. La povertà è una cosa fluida, che appare e ricompare come le maree, come la luna piena. È ciclica, soprattutt­o quella da lavoro, ma non per questo dev’essere accettata come fosse irreversib­ile o ineluttabi­le. E va accompagna­ta a un livello più alto di benessere, con la partecipaz­ione di tutti. Facciamo comunità e lavoro per i poveri, questa la ricetta. Perché domani o dopodomani poveri saremo anche noi.

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