Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
QUEI QUATTRO SALTI NEL VUOTO
La democrazia vive tempi difficili in tutto il mondo, dagli Stati Uniti a Israele. E paradossalmente, li sta vivendo proprio mentre nell’intero pianeta mai tanti Paesi l’hanno adottata (almeno a parole) come proprio regime politico. Successo e crisi insieme; diffusione massima (quanto meno formale) e stanchezza estrema. Due facce della stessa storia. Bisognerebbe saper guardare a fondo in questo groviglio, e spiegarselo, per correre ai ripari: ma nessuno lo sta facendo seriamente, purtroppo.
Intanto, anche in Italia le cose non vanno affatto meglio; anzi. E proprio quando una parte sempre più consistente, ormai quasi maggioritaria, dei nostri concittadini rinuncia persino al diritto di voto – che è l’atto culminante, anche simbolicamente, di ogni pratica democratica – si va allargando in modo trasversale non dico il sostegno, ma almeno una certa indifferente accettazione (una specie di “perché no, dopotutto?”) verso modelli istituzionali ambigui e pericolosi. Disegni che di fatto sostituiscono la democrazia con una sua degenerazione: una specie di regime feudale-plebiscitario povero di garanzie, di contrappesi, di reale partecipazione popolare.
Farò quattro esempi, tutti presi dal dibattito di queste settimane. Cominciamo dal cosiddetto “terzo mandato”, che ora sembra stia coinvolgendo anche i sindaci e non solo i presidenti di Regione, e che divide in modo abbastanza profondo la stessa sinistra (vedi gli esempi della Campania e della Puglia). Ebbene, quale idea c’è dietro la tesi di chi ritiene che tutto debba essere deciso solo dal consenso popolare intorno a un nome, intorno a una singola figura? E che, se questo c’è, non debbano esistere altre limitazioni, altri vincoli posti dalla legge, o persino dalla Costituzione - all’esercizio di un potere che, prolungato a dismisura, si esporrebbe per forza quanto meno a uno slittamento personalistico carico di azzardi? Quale idea, se non quella che il corto circuito elettorieletto debba prevalere sempre e comunque su tutto il resto – anche sul principio dell’obbligo nel ricambio - e finire con l’imporsi come unica regola? Ed è democrazia, questa, o deriva plebiscitaria? E la domanda vale per la Campania o la Puglia, o anche per il Veneto?
Passiamo ora (secondo esempio) alla questione dell’autonomia differenziata, che anch’essa in qualche modo divide la sinistra, sebbene in modo più sotterraneo e meno apertamente dichiarato.
Ammetto in tutta tranquillità che sul meccanismo in astratto sono possibili valutazioni differenti, anche positive, sebbene si tratti di un congegno mai davvero sperimentato. Ma c’è qualcuno che può sostenere in assoluta buona fede che qui da noi, in Italia, con l’esperienza in molti casi fallimentare del concreto regionalismo di questi decenni - al Sud, certamente e soprattutto, ma non solo al Sud – questo sistema non si tradurrebbe in un accrescimento del divario fra le diverse realtà territoriali, e in un aumento della dissimmetria nell’esercizio di diritti fondamentali da parte dei cittadini, per arginare il quale nulla potrebbe il farraginoso e irrealizzabile funzionamento dei Lep? Un esito accompagnato da una ulteriore e inevitabile feudalizzazione della politica e del governo locali, e da un abnorme aumento di potere non regolato da parte dei presidenti delle Regioni, semmai eletti senza limiti, ove le due riforme si dovessero sovrapporre. E cosa avrebbe a che fare tutto questo con la cura della democrazia italiana?
C’è poi il “premierato forte”. E qui il dissenso della sinistra (ma non del partito di Renzi) pare compatto. Alle spalle di questa proposta affiora, a guardar bene, la medesima prospettiva che si rivela nell’ipotesi del “terzo mandato”. Che cioè tutto sta nello stringere un rapporto diretto tra governante (al singolare) ed elettori: e vada pure a ramengo il resto. Che in questo caso sarebbero i poteri del Capo dello Stato, che ne uscirebbero fortemente ridimensionati se non travolti; e nello stesso tempo la forza e il ruolo dei partiti, che la Costituzione prefigurava invece centrali nella sua architettura, schiacciati dalla relazione – anche qui di tipo plebiscitario - fra elettori e capo del governo. Il punto però è che opporsi a un simile tentativo non basta. Per contrastarlo con efficacia bisogna sapergli mettere di fronte, in alternativa, un altro progetto di riforma, che tenga realistico conto delle inefficienze del nostro sistema di governo, e delle farragini nel funzionamento della nostra rappresentanza. Renzi ci aveva provato: ma la sua maldestra tattica non può nascondere l’esistenza di un problema grave e reale. Bisogna saperlo affrontare senza colpire principi fondamentali di equilibrio fra poteri: guardando in avanti, verso un’idea più matura della democrazia italiana, e non in direzione di un suo snaturamento.
Infine, una parola sul Parlamento. Oggi la decretazione d’urgenza, che svilisce la funzione legislativa delle Camere, ha raggiunto livelli mai toccati nemmeno negli anni di Berlusconi, nonostante i moniti del presidente della Repubblica. Su questa strada si arriva a mettere in discussione un assetto cruciale nella distinzione fra potere legislativo ed esecutivo. Fin dove si vuole arrivare?
Ma è chiaro che sin quando non si riuscirà a mettere in campo una diversa idea d’Italia, e a prefigurare una nuova linea di sviluppo e di risanamento della nostra democrazia – che è cosa differente dalla pura difesa dell’esistente – i rischi di disastrosi salti nel vuoto non potranno che aumentare.