Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Il retelling «ucronico» dell’Eneide, fuori dal mito
Nel coraggioso romanzo d’esordio di Leonardo Floriani, edito da Besa Muci
Il merito che non si può non attribuire a Di quella materia che non dura è il coraggio. Il coraggio di aver prelevato Troia dal crepuscolo dell’età del bronzo e di averla ricollocata in un tempo indefinito, in cui per campare c’è bisogno dell’energia elettrica e per spostarsi delle automobili (proprio come nel nostro). Il coraggio di non aver ceduto alla tentazione di scimmiottare il linguaggio dell’epica (sarebbe stata un’impresa nell’impresa), ma di essersi affidato a una scrittura assai personale, non sciatta e anzi consapevole al punto di sostenere autorevolmente un’impalcatura ambiziosa e a tratti divertente. Infine il coraggio di lasciare intatta l’aura di leggenda intorno all’Eneide, senza però rinunciare a interpretazioni personali.
Il romanzo di esordio di Leonardo Floriani (uscito per Besa Muci Editore) viene presentato come «un retelling dell’Eneide, che dà voce ai personaggi leggendari, eterni che tutti noi conosciamo», invece a nostro avviso è soprattutto un modo per provare l’ebbrezza di cimentarsi con una delle più grandi storie letterarie di tutti i tempi,
provando a ipotizzare – con le dovute cautele e una buona dose di eleganza – che se le cose fossero andate diversamente forse l’intera umanità avrebbe attribuito a quell’assedio (di Troia) un significato meno strategico, addirittura meno tragico.
Con la postfazione dello scrittore salentino Livio Romano – che si sofferma con grazia e altrettanto coraggio sulle prospettive della scrittura dell’ucronica, ovvero la traslazione del tempo in tempi che in realtà non esistono –, il romanzo di Floriani «con commovente lirismo fornisce una lettura audace e originale di uno degli episodi più iconici della mitologia». Un Enea contrariato e in disparte con la famiglia, assiste ai festeggiamenti per la fine dell’assedio: un atteggiamento malinconico che potrebbe favorire chissà quante interpretazioni di uno dei più grandi impianti lirici conosciuti dall’umanità (l’Eneide di Publio Virgilio Marone, scritta tra 29 e 19 a.C.), e in parte così è perché l’autore fa di tutto per mettere a nudo l’umanità dei personaggi che la leggenda ha tramandato come sacri (per esempio, la decisione di Enea di immergersi nella battaglia per proteggere famiglia e città).
Tuttavia, proprio perché rimane quella del coraggio la principale peculiarità di questo esordio, va fatto notare che la scelta dell’ucronia in un romanzo dalla scrittura così identitaria ottiene il paradossale effetto di nascondere l’autore, il suo eventuale talento, la potenza della storia in sé. Mentre da un lato la trasposizione temporale dell’Eneide evidenzia un ardimento letterario ammirevole, dall’altro priva il romanzo di qualsiasi strumento materiale (cronistico, temporale, quindi denso-strutturale) per poterne giudicare stile e composizione. Tutti i plotoni di linguisti che l’hanno sezionato, affermano che William Shakespeare sia «ucronia pura» poiché è riuscito a traslocare tragedie e commedie avanti e indietro nel tempo senza mai giustificarne l’arbitrarietà. Senza andare così lontano, in Di quella materia che non dura la sensazione è che il carattere quasi sperimentale dell’opera penalizzi le potenzialità dell’autore, che pure ci sono e non sono poche.