Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Margaret Lee Il primo sogno erotico
Ero bambino, le labbra di Margaret Lee mi fecero scoprire il desiderio. La bocca della showgirl – era corposa, fondente – creava un broncio naturale. La sua bocca: il punto focale di un viso dall’incarnato chiaro e gli zigomi alti, sfiorati da quei capelli sensibili alla luce. In qualche caso erano raccolti all’indietro, in uno chignon che metteva in rilievo un profilo disegnato a punta fine. Avrei voluto farle male, credo, ma non potevo che starmene acquattato in poltrona, nella luce smorzata del salotto. Aspettavo la sua comparsa sullo schermo del televisore in bianco e nero, che troneggiava sopra un carrello ugualmente antiestetico.
Parlo di un’altra era, la metà degli anni Sessanta. Stava per consumarsi la rottura nei confronti di ogni epoca precedente dell’Umanità, i sismografi tacevano, io vivevo per lei si può dire. Lei, una presenza che frullava nella mia testa in attesa di manifestarsi ai miei occhi, nell’ora e mezza settimanale di quello show dopo Carosello. Influiva sul suo potere di fascinazione il fatto che fosse straniera, inglese per la precisione? Dava l’idea di essere un’emanazione delle nebbie, questo è certo. Forse, mi trasognavo, in primavera era solita camminare scalza nei boschi, con la sola camicia addosso. E il mastino dei Baskerville, mia fresca lettura, le trotterellava dietro buono buono (come avrei fatto volentieri anch’io, del resto). Perché aveva lasciato quel mondo di manieri, foreste, higlands, brughiere? Forse qualche volta mi sarò posto la domanda che, ad ogni modo, eccedeva di troppo la mia limitatissima esperienza del mondo. Oggi mi diverto a pensare che lei fosse arrivata in Italia con una combinazione, affidata al caso, di treni ed autostop. Nato come ogni moda negli Stati Uniti, l’autostop era parecchio in voga nel ‘66, dunque la congettura può suonare plausibile. Se devo lasciare un altro po’ di briglia sciolta all’immaginazione, vedo Margaret ventenne coabitare, con delle coetanee di varia nazionalità, in un appartamento con vista sul Colosseo (nel ‘67 era possibile: esistevano ancora i colpi di fortuna, esisteva la realtà). La sera, mi dico oggi, probabilmente lei andava al Piper, per scatenarsi fra pista e divanetti. Qualcuno avrà sicuramente notato le sue gambe nordiche, una volta accavallate. Di questo, come praticamente di tutto, all’epoca ero beatamente ignaro. Mi limitavo ad aspettare la sua comparsa sullo schermo, a Johnny sera, con uno stato d’animo che mescolava accelerazione cardiaca, desiderio, vergogna. Se i miei genitori si fossero accorti del mio colpevole innamoramento per lei, del mio precoce disordine, mi sarei sentito precipitare in un abisso, scarlatto (e non è bello precipitare in un abisso scarlatto, si sa).
Chi l’aveva portata via dai divanetti del Piper, mi chiedo oggi? Un agente con ottime entrature? Forse un funzionario della Rai di allora. Me lo figuro mingherlino, lo sguardo mobile da faina, gli occhiali spessi per vederci meglio, bambina mia. Sta di fatto che Margaret l’avevano scritturata per quello sgangherato show del giovedì sera, dove il versatile Johnny Dorelli faceva da mattatore. In uno sketch che parodiava Diabolik – impersonato da Dorelli in impietosa calzamaglia nera – lei incarnava la versione ingenua, dunque irresistibile, della divina Eva Kant. Anni dopo, durante la lezione di filosofia intorno a Kant e alla sua Critica della ragion pura, mi sarei perso nelle associazioni che l’omonimia suscitava, ripensando ad Eva, a Margaret, alla mia erezione in atto.
«Bottone mi segui, ci siamo?». «Sì professore, ci siamo quasi».
A dieci anni, viceversa, mi limitavo a spiarla da sopra il bracciolo della poltrona. E il mio rapporto con lei si esauriva in uno scombussolamento più che altro psicologico. Fuori dai siparietti comici, in quel programma lei spesso indossava un abito nero smanicato, in assoluto quello preferivo. La ragione è semplice: lei aveva delle braccia di un candore sconvolgente. Un candore da cigno, l’animale che con il suo piumaggio immacolato, con quel collo flessuoso ti in
vita ad abbracciarlo, a morderlo, a sporcarlo. Forse era questo a trasmettermi un malessere descrivibile solo per approssimazione e del quale, comunque, avevo nostalgia non appena spento il televisore. Purtroppo, questa specie di Paradiso privato era prossimo a scoppiare come una bolla di sapone. Incombevano il ‘68 e la sua dirompente mutazione rispetto all’intero passato dell’Occidente.
Nel volgere di poco, le edicole si sarebbero tappezzate con pubblicazioni che mettevano a nudo i corpi e, dunque, lasciavano noi indifesi e nudi davanti ad essi. Così un compagno, il solito ripetente smaliziato, portò in classe quel numero di Playmen. Solo pochi anni prima lei era una sembianza fatata che mi veniva a trovare in punta di piedi, prima di prendere sonno. Ora, sfogliando la Nota Rivista, Margaret Lee andava svelando la propria natura umana troppo umana. Lei possedeva un’anatomia non più soltanto allusa da una calzamaglia, ma squadernata in tutti i suoi conturbanti dettagli. E anatomia significa: meraviglia del corpo femminile, sofferenza del desiderio maschile. Ricordo un particolare di quello scatto a colori (dunque lei era fulva come certe modelle di Tiziano…). Uno scatto nel quale lei esibiva il torso nudo ma, con l’avambraccio, copriva il seno. Uno di quei gesti femminili che esprimono malizia, pudore, strategia, timore degli effetti che provocherà – o non provocherà – nel maschio. Posture che ti tengono sulla corda; che ti fanno tendere e vibrare come la corda di un arco. Nel frattempo miei compagni, a turno, sgattaiolavano in bagno con la stessa copia, sempre più sgualcita. Sì, il desiderio maschile è frenetico, ottenebrato. Io rimanevo al banco. Ripensavo alla bocca di Margaret, temevo sarebbe rimasto per sempre un miraggio.
Più tardi, molto più tardi, le ho però sperimentate delle labbra simili a quelle di Margaret. Appartenevano a una donna reale dai capelli color bronzo. Quando ci baciammo, sotto una torre di età comunale a Narni, ricordo un azzeramento del mondo fenomenico attorno. Ecco che le labbra carnose di quella donna carnale mi facevano sperimentare ciò che avevo sognato da bambino, con Margaret Lee. E la realtà, una volta tanto, non deludeva per nulla. L’altro giorno mi sono imbattuto in un’immagine della donna di Narni, scrollando lo schermo del cellulare. Non pensavo che la mia memoria emotiva sarebbe risalita nel tempo fino a Margaret Lee. È proprio vero: non sai mai cosa può riservarti il passato.
Le sue labbra mi fecero scoprire il desiderio. La bocca della showgirl – era corposa, fondente – creava un broncio naturale. Era il punto focale di un viso dall’incarnato chiaro e gli zigomi alti, sfiorati da quei capelli sensibili alla luce In qualche caso erano raccolti all’indietro, in uno chignon che metteva in rilievo un profilo disegnato a punta fine