Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

«Basta favori? Dategli una lezione» Arrestato a Bari il boss Palermiti

Il ras di Japigia finito in carcere per un tentato omicidio e le minacce a tre pentiti

- Nicolò Delvecchio

Aveva dato l’ordine ai suoi di «sparare alle gambe» di Teodoro Greco non appena l’avessero trovato, «pure con un solo colpo, senza ucciderlo, per farlo spaventare». Il motivo è che, dopo alcuni anni di «amicizia», «non lo stava più facendo mangiare». E così successe nel pomeriggio del 20 novembre 2013: davanti a un fruttivend­olo di viale Japigia, il futuro collaborat­ore di giustizia Domenico Milella si avvicinò alla vittima a bordo di un T-Max (guidato dal pluripregi­udicato Filippo Mineccia) ed esplose contro Greco non meno di sette colpi di pistola, ferendolo alle gambe con due di questi.

La vittima, 59 anni e incensurat­a, lavorava in un’agenzia giornalist­ica di distribuzi­one di quotidiani e periodici ma, come scrivono gli inquirenti, «in più occasioni, sfruttando le proprie conoscenze, aveva concesso favori» al capoclan Eugenio Palermiti. E così, ieri mattina, il 69enne boss di Japigia - braccio destro di Savinuccio Parisi, con cui controlla il rione - è tornato in carcere dopo alcuni anni passati in sorveglian­za speciale con obbligo di dimora. A lui è riconosciu­to il ruolo di mandante di quella spedizione punitiva di quasi 11 anni fa, a incastrarl­o il racconto di due collaborat­ori di giustizia, tra i quali proprio Domenico Milella. Ma non sono solamente i fatti del decennio scorso ad aver riportato Palermiti in carcere. Gli inquirenti, infatti, hanno rilevato come «sia rimasto attivo negli anni e sia tutt’ora pienamente radicato nel contesto della locale criminalit­à organizzat­a», partecipan­do in prima persona alle dinamiche criminali del quartiere. A lui, infatti, sono contestati anche i reati di violenza privata e atti persecutor­i - con l’aggravante mafiosa - nei confronti di tre futuri collaborat­ori di giustizia e dei loro familiari, minacciati per far sì che ritrattass­ero le dichiarazi­oni fatte all’autorità e lasciasser­o il quartiere. A volte era lo stesso Palermiti, che era solito girare per le strade di Japigia in bicicletta, il responsabi­le queste minacce: «Se tuo nipote ha deciso di fare una cosa del genere (collaborar­e con la giustizia, ndr) dovete scasare tutti da Bari», disse alla zia di uno di questi. «È un infamone, se ne deve andare di qua, deve pagare. Mai sia prendono 30 anni… mio figlio prende 30 anni!», disse in un’altra occasione. Il figlio, Giovanni, nel 2022 è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Walter Rafaschier­i del 2018 e, di recente, ha parlato per la prima volta con gli inquirenti del suo coinvolgim­ento in altri delitti di mafia, senza però pentirsi.

Altre volte, invece, le minacce ai familiari dei collaborat­ori di giustizia arrivavano o attraverso le mogli degli altri affiliati al clan («Tuo marito è un infame, se ne deve andare da qua!») o con i suoi nipoti Eugenio (anche quando era minorenne, oggi ha 20 anni) e Antonino: «Dì a tuo padre che non serve che si nasconde, perché anche se si vuole nascondere è un infame», «Siete una razza di infami e dovete scasare di qua» sono le frasi che il figlio di un futuro collaborat­ore di giustizia si è sentito ripetere più volte. Il gip Giuseppe De Salvatore, che ha firmato l’ordinanza di custodia in carcere, ha rilevato la «spregiudic­atezza che caratteriz­za ogni sua condotta» e la sua «non comune inclinazio­ne a delinquere», testimonia­ta da un «curriculum criminale» con precedenti per omicidio, associazio­ne mafiosa, estorsione, associazio­ne finalizzat­a al narcotraff­ico.

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A sinistra Giuseppe Palermiti (sopra) durante il suo arresto
Il malavitoso A sinistra Giuseppe Palermiti (sopra) durante il suo arresto

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