Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Le «parole non dette» di John Surman
Dopo il disco del trio di Vijay Iyer, Compassion, ecco un altro sicuro candidato al titolo di album dell’anno: Words Unspoken del quasi ottantenne John Surman, da ieri nei negozi. Sono entrambi prodotti dalla gloriosa etichetta di Manfred Eicher, la Ecm, della quale Surman è da sempre una bandiera, mentre Iyer ne rappresenta la continuità e il futuro, a garanzia di uno standard qualitativo costantemente alto. Surman, tante volte ascoltato in Puglia negli anni, è il grande specialista del sax soprano che conosciamo, ma ancor prima lo è del sax baritono, per tacere del clarinetto basso, strumenti ad ancia diversi per timbro ed estensione dai quali sa trarre una voce peculiare e un’affabulazione melodica con pochi uguali, diventata negli anni la sua inconfondibile cifra espressiva. Mescolando jazz ed elettronica, ricordi folclorici ed echi elisabettiani, lame di luce e ombre cupe, Surman fa una musica di grande intensità espressiva. Inglese di nascita, ma ormai norvegese d’adozione e in un certo senso felicemente cittadino del mondo, qui Surman continua la partnership con il vibrafonista Rob Waring (americano anch’egli «esule» in Norvegia) iniziata nel suo precedente album in trio del 2018, Invisible Threads. Sono passati degli anni, e l’intesa tra loro è arrivata a livelli quasi telepatici (le «parole non dette» del titolo). Lo stesso succede, da subito, con gli altri membri di questo nuovo quartetto: il «sangue giovane» del batterista norvegese Thomas Strønen e soprattutto del chitarrista britannico Rob Luft, già ascoltato su Ecm al fianco della cantante Elina Duni e qui compiutamente a suo agio nel tirar fuori tutta la sua classe di grande strumentista gentile e discreto. La combinazione di questi quattro fantastici musicisti, con il colore speciale, metallico e luminoso, che l’impasto di vibrafono e chitarra elettrica dà alla tela di fondo dei brani, permette a Surman di volare libero nelle volute melodiche a lui care. E l’interscambio fra loro permette al gruppo di trovare un suono di grande bellezza, ricco e tornito pur con la ben nota capacità di far «respirare» la musica tipica di Surman. Il quale, ispiratissimo, firma tutti i dieci brani del disco, splendidi non solo quando privilegiano una chiave contemplativa o introspettiva, come nel brano eponimo, in Belay That, Precipice o nell’incantevole Flower in Aspic, ma soprattutto quando danno fondo a una leggera e danzante felicità espressiva come nell’iniziale Pebble Dance o in Onich Ceilidh. La conclusione con il «camerismo» molto cool di Hawksmoor conferma come Surman sia tornato con questo nuovo album ai livelli delle sue creazioni più alte, come Westering Home (1972), Upon Reflection (1979) o Road to Saint Ives (1990), ma con la saggezza dell’estrema maturità, di chi tutto ha visto e conosciuto e può per questo sorriderne.