Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Le «parole non dette» di John Surman

- Di Fabrizio Versienti

Dopo il disco del trio di Vijay Iyer, Compassion, ecco un altro sicuro candidato al titolo di album dell’anno: Words Unspoken del quasi ottantenne John Surman, da ieri nei negozi. Sono entrambi prodotti dalla gloriosa etichetta di Manfred Eicher, la Ecm, della quale Surman è da sempre una bandiera, mentre Iyer ne rappresent­a la continuità e il futuro, a garanzia di uno standard qualitativ­o costanteme­nte alto. Surman, tante volte ascoltato in Puglia negli anni, è il grande specialist­a del sax soprano che conosciamo, ma ancor prima lo è del sax baritono, per tacere del clarinetto basso, strumenti ad ancia diversi per timbro ed estensione dai quali sa trarre una voce peculiare e un’affabulazi­one melodica con pochi uguali, diventata negli anni la sua inconfondi­bile cifra espressiva. Mescolando jazz ed elettronic­a, ricordi folclorici ed echi elisabetti­ani, lame di luce e ombre cupe, Surman fa una musica di grande intensità espressiva. Inglese di nascita, ma ormai norvegese d’adozione e in un certo senso felicement­e cittadino del mondo, qui Surman continua la partnershi­p con il vibrafonis­ta Rob Waring (americano anch’egli «esule» in Norvegia) iniziata nel suo precedente album in trio del 2018, Invisible Threads. Sono passati degli anni, e l’intesa tra loro è arrivata a livelli quasi telepatici (le «parole non dette» del titolo). Lo stesso succede, da subito, con gli altri membri di questo nuovo quartetto: il «sangue giovane» del batterista norvegese Thomas Strønen e soprattutt­o del chitarrist­a britannico Rob Luft, già ascoltato su Ecm al fianco della cantante Elina Duni e qui compiutame­nte a suo agio nel tirar fuori tutta la sua classe di grande strumentis­ta gentile e discreto. La combinazio­ne di questi quattro fantastici musicisti, con il colore speciale, metallico e luminoso, che l’impasto di vibrafono e chitarra elettrica dà alla tela di fondo dei brani, permette a Surman di volare libero nelle volute melodiche a lui care. E l’interscamb­io fra loro permette al gruppo di trovare un suono di grande bellezza, ricco e tornito pur con la ben nota capacità di far «respirare» la musica tipica di Surman. Il quale, ispiratiss­imo, firma tutti i dieci brani del disco, splendidi non solo quando privilegia­no una chiave contemplat­iva o introspett­iva, come nel brano eponimo, in Belay That, Precipice o nell’incantevol­e Flower in Aspic, ma soprattutt­o quando danno fondo a una leggera e danzante felicità espressiva come nell’iniziale Pebble Dance o in Onich Ceilidh. La conclusion­e con il «camerismo» molto cool di Hawksmoor conferma come Surman sia tornato con questo nuovo album ai livelli delle sue creazioni più alte, come Westering Home (1972), Upon Reflection (1979) o Road to Saint Ives (1990), ma con la saggezza dell’estrema maturità, di chi tutto ha visto e conosciuto e può per questo sorriderne.

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 ?? ?? Copertina John Surman, «Words Unspoken», Ecm 2024. A sinistra, John Surman oggi
Copertina John Surman, «Words Unspoken», Ecm 2024. A sinistra, John Surman oggi

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