Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Aspettando Godot: fedeltà e tradimento al testo di Beckett
Il 5 gennaio 1953, nel piccolo Théâtre de Babylone di Parigi, andò in scena la prima assoluta di En attendant Godot, tragicommedia che avrebbe mutato le sorti del teatro contemporaneo e del suo autore: lo scrittore Samuel Beckett. Il successo dello spettacolo, allestito dall’amico attore e regista Roger Blin, avrebbe «condannato alla fama» (come recita il titolo della biografia di James Knowlson) lo spatriato irlandese, che coi primi romanzi francesi aveva avviato quel percorso di affrancamento dal fantasma «paterno» di James Joyce.
Negli anni a venire, autotraducendo e dirigendo da sé varie messe in scena del Godot, Beckett avrebbe continuamente variato il testo originario e incorporato via via nelle didascalie, sempre più minuziose, le indicazioni di regia, dettate dalla «scrittura di scena», creando una partitura che, sebbene conceda margine espressivo a interpreti e registi, risulta altresì assai stringente nell’imposizione di un’aderenza a un ponderato congegno multimediale, fatto di testo, mimica, tempi, scenografia, luci, etc.
Ciò spiega perché il teatro beckettiano esiga – e non certo per un attaccamento «filologico» e conservativo al testo a monte – un rispetto assillante della partitura: studiatissimo ordigno di tortura, nel quale ogni dettaglio, revisionato per una vita intera, è funzionale all’insieme. È noto quanto Beckett stesso si fosse imbarazzato e infuriato quando, al termine di una delle poche rappresentazioni alle quali di nascosto assistette, i calzoni di Estragon non cascarono, come invece perentoriamente indicato in didascalia.
La questione della fedeltà alla partitura beckettiana è troppo complessa, perché qui la si possa argomentare. Ma, a poche ore dalla prima barese dell’Aspettando Godot con la regia di Theodoros Terzopoulos, ci sembra onesto avvertire il pubblico del teatro Piccinni che quello che vedrà non è l’Aspettando di Samuel Beckett, bensì un suggestivo allestimento del dionisaco regista greco, a partire dal testo di Beckett: un testo, oltretutto, ripreso dalla oramai datata traduzione di Carlo Fruttero, qua e là, per giunta, tagliata. Come tagliata è quasi del tutto l’azione scenica dei personaggi (altro che l’immobilità beckettiana, qui Vladimir ed Estragon appaiono stesi come morti dialoganti testa contro testa e privati della loro mimica comica, dalla celebre scena introduttiva dello stivale che non viene via – «Rien à faire» – a quei pantaloni cascanti del finale, appunto).
Efficaci, comunque, gli attori, a cominciare dalla coppia Vetrano e Randisi. Tutto, scenograficamente, è stravolto: la luna non c’è, il celeberrimo albero secco è sostituito da un bonsai sul proscenio, la scena è dominata da una pesante struttura nera e mobile che muovendosi e aprendosi disegna una simbolica croce. Mancano tanti oggetti dell’opera beckettiana e dominano, con forte valenza simbolica, violenta, oscura e inquietante, coltelli e altre cose sanguigne.
Una valenza simbolica, ancestrale e mitica, che appartiene più alla ri-scrittura autoriale di Terzopoulos che al genio di Beckett, il quale, tranciante, dichiarava: «Non ci sono simboli dove non c’è l’intenzione», a togliersi di dosso ogni grave intenzionalità simbolistica.