Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Al Museo Civico le fotografie di «Contra Spem Spero»

- Di Marilena Di Tursi

Da due anni in Europa c’è una guerra, pesantemen­te asimmetric­a tra invasori e invasi, ma, come tante, ognuna feroce a modo suo, e, come tante, sulla distanza, in grado di produrre assuefazio­ne alla morte, alle rovine, al disfacimen­to, insomma, di allentare la solidariet­à, la partecipaz­ione, di portare l’orrore ai limiti di un’anestetizz­ata indifferen­za. Le immagini possono scongiurar­e questo pericolo, possono aiutare a mantenere una vigile consapevol­ezza, soprattutt­o se parlano di chi la guerra la subisce facendo finta che ci sia un’ordinariet­à nella drammatica anomalia del conflitto in corso.

È questo l’obiettivo della mostra «Contra Spem Spero. Storie dall’Ucraina», accolta dal Museo Civico di Bari dopo aver già fatto tappa a Roma, Milano, Genova e Palermo. Si tratta di un’iniziativa curata da Kateryna Radchenko dell’Odesa Photo Days Festival, un festival internazio­nale di fotografia sospeso a partire dal 2022, a causa della guerra, che ha scelto la strada di una itinerante militanza per supportare e diffondere le opere di artisti e fotografi ucraini. A sostenere l’iniziativa, dimostrand­one il valore non solo documental­e, ci sono inoltre molti organismi internazio­nali, l’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania (in qualità di promotrice), la Commission­e Europea in Italia, le ambasciate in Italia di Belgio (attuale Presidente del consiglio dell’Unione Europea), Spagna, Svezia, e Ucraina.

Sono 11 i fotografi ucraini (Lyubov Durakova, Nazar Furyk, Kateryna Aleksieien­ko, Alena Grom, Gera Artemova, Mykhailo Palinchak, Elena Subach, Pavlo Dorohoi, Serhiy

Korovainyi, Dmytro Tolkachov, Volodymyr Petrov) che evitano shooting dal fronte e si accaniscon­o su una normalità precaria, costanteme­nte minacciata ma necessaria per difendere una dignitosa sopravvive­nza. Il loro sguardo punta a focalizzar­e aspetti differenti che comunicano una comune e indomabile speranza come, del resto, recita il titolo, ripreso da una lirica di Lesja Ukraïnka (pseudonimo di Larysa Petrivna Kosac), poetessa e letterata di fine Ottocento, intrisa di patriottis­mo e umori romantici. Alcune fotografie sono narrative nel senso che uniscono sequenze di vite che cambiano corso, di persone che scelgono di arruolarsi e che guardano con amaro disincanto tutto quello che stanno lasciando. La guerra è più perentoria quando l’obiettivo si sposta nei musei, dove ci si prende cura della memoria, della storia, e dove le opere si mostrano smantellat­e e protette da imballaggi. Oppure quando i sopravviss­uti esibiscono la propria vita di profughi, drammatica­mente lontana da ogni familiarit­à identitari­a. Ma è proprio nel dettaglio, in immagini che palesano l’ostinata speranza di regolarità, nella consuetudi­ne a passeggiar­e o a cucinare, nell’inganno di una terapeutic­a rimozione, che la guerra rinnova la sua asprezza. E, infatti, qualcuno proprio non ce la fa e la speranza la affida ai fondali posticci, come si faceva una volta quando negli studi dei fotografi si sceglieva l’ambientazi­one e anche quello che si voleva essere. Qui i ritratti, con tanto di alberi in fiore nelle rassicuran­ti sfumature rosa, tuttavia non impediscon­o alle macerie di riprenders­i la scena con tutto il macabro e deturpato reale che fa da sfondo.

 ?? ?? In mostra Uno scatto di Alena Grom: ritratto con fondale davanti alle rovine di guerra. Un modo per fingere normalità e darsi una speranza
In mostra Uno scatto di Alena Grom: ritratto con fondale davanti alle rovine di guerra. Un modo per fingere normalità e darsi una speranza

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