Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

La vendetta del boss Palermiti «Mi chiese un euro per il caffè Così gli ho incendiato il bar»

- N. Del.

«Ho mandato a incendiarl­o perché mi ha fatto pagare il caffè». A parlare così con un altro affiliato al clan, citato da un collaborat­ore di giustizia, sarebbe stato Giovanni Palermiti, figlio del braccio destro di Savinuccio Parisi, Eugenio. La notte del 25 gennaio 2018, infatti, Palermiti junior (50 anni, attualment­e in carcere e condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Walter Rafaschier­i) mandò uno dei suoi affiliati, Francesco Vessio, a bruciare un bar da poco inaugurato su viale Japigia. Il motivo, come spiegato dallo stesso Palermiti, era molto semplice: il proprietar­io, pur avendo riconosciu­to in Gianni il figlio del capoclan, gli chiese comunque un euro per il caffè. Un affronto intollerab­ile, che Palermiti decise di vendicare nel modo più drastico. Cioè mandando un affiliato, Francesco Vessio, a bruciare il locale versando un liquido infiammabi­le attraverso la finestra del bagno. Un gesto sconsidera­to, criticato duramente dallo stesso capoclan («mio figlio vuole essere ucciso. Per un euro gli ha acceso il bar a quello. Ci rimase male che si prese un euro pur avendolo riconosciu­to») e potenzialm­ente letale per Vessio, che rimase ustionato e rischiò di morire.

Gianni Palermiti, quindi, torna ancora una volta al centro della scena nel giro di poche settimane. A febbraio, infatti, era stato il primo affiliato al clan a rispondere alle domande dei pm relativame­nte ad alcuni omicidi di mafia in cui è coinvolto (non solo quello di Rafaschier­i per il quale è già stato condannato). Una scelta, questa, che ha scatenato sui social la rabbia dei suoi avversari, che lo hanno accusato di essersi pentito. Palermiti, in realtà, non ha mai espresso la volontà di collaborar­e con la giustizia, e sono stati i suoi stessi familiari a chiarire che quello di Giovanni non è un pentimento, ma la semplice esposizion­e di alcuni fatti di sangue in cui è coinvolto.

La collaboraz­ione più «dolorosa» per il clan, ma la più importante per gli inquirenti, è quella di Domenico Minella, grazie al quale gli inquirenti hanno raccolto elementi utilissimi sia per ricostruir­e le vicende della guerra di mafia del 2017, che vide contrappos­ti i Palermiti con i «separatist­i» di Busco, sia altri elementi per ricostruir­e le dinamiche interne al quartiere Japigia e gli affari del clan capeggiato da Savinuccio. Collaborat­ori di giustizia che hanno aiutato la Procura anche a riportare in carcere lo stesso Eugenio Palermiti, non più tardi di due settimane fa. A lui è contestato l’essere stato il mandante di una gambizzazi­one nei confronti di un «vecchio amico», incensurat­o, che aveva smesso di «fargli favori», sia diversi episodi di atti persecutor­i nei confronti di futuri collaborat­ori di giustizia e dei loro familiari. A loro, Palermiti si sarebbe avvicinato o personalme­nte – aggirandos­i per il quartiere in bicicletta – o attraverso parenti e affiliati. Suo nipote e omonimo, figlio di Giovanni, avrebbe minacciato via social il figlio di un futuro collaborat­ore, poi costretto a lasciare il quartiere.

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Giovanni Palermiti

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