Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Parole, suoni e immagini «Nel nome del figlio fragile»

«Madre» di Ermanna Montanari oggi e domani sarà al Kismet di Bari Due monologhi compongono un «poema che vuole parlare ai ragazzi»

- di Giancarlo Visitilli

Le madri, quando cadono. I figli che sotterrano. L’erranza di chi non rimane a terra e qualsiasi caduta è occasione di ritorno a un tempo e in uno spazio in cui riconoscer­si parte di un unico sistema, Terra, rende ciascuno più umano. Il Teatro delle Albe, in coproduzio­ne con Ravenna Teatro,dopo la prima pugliese del 7 marzo a Manfredoni­a nel teatro Lucio Dalla (stagione «Futura»), sarà oggi e domani al teatro Kismet (stagione «Bagliori») di Bari con un nuovo lavoro, Madre. L’appuntamen­to del Teatro Pubblico Pugliese vede l’incontro di tre artisti: Ermanna Montanari (attrice e autrice), Stefano Ricci (pittore e illustrato­re), Daniele Roccato (compositor­e e contrabbas­sista solista) con la drammaturg­ia di Marco Martinelli. Per l’occasione, abbiamo incontrato Ermanna Montanari.

Madre é un poema di immagini e suoni, scritto dal suo compagno, Marco Martinelli e da lei interpreta­to. Si ha l’idea che la sinestesia la vinca su tutte in questo spettacolo. Come avete lavorato?

«Questo spettacolo è di Stefano, Daniele e me. A un certo punto abbiamo chiesto a Marco di scrivere un poema. È successo tutto durante il Covid: Ricci mi ha chiamata perché avrebbe disegnato un sogno. Io, poi, ho curato la parte musicale. Ci è sembrato un sogno di morte prossimo a quello che stava accadendo. Una relazione alchemica fra noi tre che volevamo continuare a ricercare. Se Marco ha composto un poema, noi abbiamo composto una drammaturg­ia sonora, visiva e vocale. Come sono le madri ai tempi dei figli alti e grossi ma ciechi come una ponga».

Cosa pensa della fragilità di questi figli di cui si parla tanto oggi?

«Fragili lo siamo tutti. Penso che la fragilità sia un valore quando si è consapevol­i di esserlo. Siamo fragili nei confronti della natura, anche se si pensa che la forza sia un dominio sulla natura. Invece si tratta della fragilità massima dell’umano. Farsi concavi, avere voce come quella della natura, significa riscoprire la propria sacralità, la propria divinità. Se non ci si fa riverenti nei confronti della sacralità della natura, perdiamo il sacro che è in noi. Qui c’è un figlio, uno dei tanti, che calpesta i fiori, abbatte gli alberi e forse butta la mamma nel pozzo o forse è voluta cadere da sola. Forse lei non è solo madre. La cosa certa è che noi siamo dalla parte dei calpestato­ri. Basti guardare i grattaciel­i, che ci dicono del nostro volerci ergere».

I suoni sono importanti in questo vostro lavoro: dai gorgoglii nella campagna desolata romagnola, ritmati, incalzanti e veloci, ai suoni sferzanti del contrabbas­so di Daniele Roccato.

«Per noi il suono è la prima scaturigin­e. Il suono è ciò che ci accompagna. Siamo immersi in una dimensione sonora. È il suono che ci fa vibrare. La drammaturg­ia visiva è in relazione con la narrazione vocale. Il primo segno è di Stefano, la luce si apre con un suo gesto, per poi aprirsi al contrabbas­so e di lì a tutte le altre corde, comprese quelle di Ermanna. Tutti abbiamo una partitura che ogni sera cambia per tempi e spazi».

La mamma cade in un pozzo e cerca l’aiuto del figlio Lui non si cala, sembra ignorare le grida Chiede conforto alla tecnologia e ai suoi apparati

Le madri oggi cadono in fondo a pozzi in cui si perdono, ma prima, sempre più spesso, lasciano in custodia i figli, di cui sempre più faticano a prendersi cura. E i figli se ne vanno, crescendo, in corsa su uno sfondo di cerchi d’acqua concentric­i, disegnato da Ricci, verso un orizzonte tempestoso.

«Si tratta di un figlio con una madre che cerca aiuto e lui che, nella tempesta, nel turbinio, anziché andare a salvare la mamma, cerca aiuto nella tecnologia: non si cala nel pozzo, piuttosto cerca argani trattori, ruspe, armature tecnologic­he, quelle che in dialetto chiamo con un termine che significa drago. L’orizzonte tempestoso è quello che viviamo fra guerre in Ucraina, nel Sud del mondo, con ogni giorno una minaccia della bomba atomica».

In un tempo in cui anche in educazione vige l’apparenza, la scuola delle eccellenze, del merito, la madre dello spettacolo invita suo figlio a “farsi semplice”, a calarsi in fondo al pozzo da solo, a non avere paura. In che senso “farsi semplice”?

«La madre è in fondo a un pozzo. Il figlio le chiede perché è lì dentro, come può fare a tirarla fuori. Lei gli dice sempliceme­nte: “Fatti sottile, vieni giù te. A te figlio parlo, al tuo cuore. Non ai tuoi aggeggi tecnologic­i. Se parlo con te io parlo con te. La prima relazione è te: io e te».

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Ermanna Montanari (foto di Enrico Fedrigoli)
Sul palco Ermanna Montanari (foto di Enrico Fedrigoli)

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