Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Vivo e imperfetto, un «mucchietto di ossa» trova voce
La genesi di un romanzo è spesso legata a un quid, a un’immagine, a un incontro… Quella alla base di «Di freccia e di gelo» (Mondadori, pagine 193, euro 19) è inconsueta, estrema. Piero Lotito (giornalista e scrittore di origine foggiana) la svela con generosità: «A Bolzano avevo alcuni anni fa una coppia di amici ai quali ero molto affezionato. Andavo spesso a trovarli partendo da Milano, e ogni volta visitavo il museo per osservare Ötzi nella sua teca di vetro. Mi amareggiava la superficiale curiosità dei visitatori nel considerarlo un semplice reperto archeologico. Un’occhiata, un risolino, e via. Ma quel corpo era stato un uomo, una persona. Cominciai così a pensare di ridargli vita descrivendolo nel suo villaggio, nei suoi boschi. E presi a studiare e a documentarmi sul passaggio tanto importante dal neolitico all’età del rame. A Bolzano non ho più i miei due amici, ma lassù, al museo, me ne è rimasto un terzo che non perderò mai».
Un «mucchietto di ossa» elevato così a protagonista, fatto nascere per la seconda volta, con il nome Ots, dopo cinquemila e trecento anni, per trasmettere conoscenza a noi, umani del Duemila distratti. Che, in quei remotissimi tempi, siamo stati tanti Ots. E anche oggi siamo tanti Ots, perché «Il nuovo è molto antico, si può anzi dire che è sempre ciò che c’è di più antico», come diceva Eugène Delacroix (eloquente l’esergo del romanzo).
Ots si racconta in prima persona, chiamandoci a seguirlo in un viaggio solo apparentemente di fantascienza, perché tra villaggi, rivalità, cacciagione, ansia, solitudine, gelosia, tradimento, duelli e amore, ci ritroviamo tutti, dando ragione a Delacroix. Sì, siamo ovviamente cambiati, immersi nella tecnologia e spinti verso l’ignoto dell’intelligenza artificiale, ma le coordinate essenziali della vita sono rimaste le stesse.
Il padre Urd, la mamma Mael, Alesh (la donna che si offre in una notte d’amore), l’amico d’infanzia
Ief, il capo-villaggio Jush, la capra Sciusciù… E poi l’albero della morte, la costruzione degli archi… il buio, la luce della legna, la fame e la difficoltà di mangiare le proprie bestie… I dolori alla schiena curati con il pugnale rovente e con la polvere di betulla… Le leggi severe del villaggio che prevedono l’allontanamento dal loco natio.
Emerge il ruolo del padre Urd, senza il quale la famiglia praticamente non ha più presenza ufficiale nel villaggio, una forma di patriarcato ante-litteram, dove comunque il padre è carismatico e ha il compito di trasmettere al figlio le «nozioni» della sopravvivenza.
Il finale del libro scandisce le ultime ore di Ots, colpito alle spalle da una freccia. E qui Lotito, alla capacità di farci vedere come in un film ambienti e persone, aggiunge sfumature che fanno diventare quasi dolce la morte: «Sentivo sempre più freddo, non riuscire a muovere nulla, al di fuori della bocca. La spalancai per prendere più aria e affondai di più il viso. Com’era buona la neve».
Fra tanti libri di genere, a volte con schemi fissi, robotizzati, «Di freddo e di gelo», ci regala una storia per farci pensare con una scrittura piana senza ghirigori. Finalmente il bello di un romanzo.