Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

QUANDO LO STATO VA DAL PARASTATO

- Di Michele Pennetti

L’indiscrimi­nata strumental­izzazione di un’inchiesta che sta cambiando la narrazione di Bari. Un Comune a rischio scioglimen­to, con le elezioni di giugno in bilico, per effetto di una procedura che secondo gli esperti rimeggia con forzatura. La foto dei parlamenta­ri baresi di centrodest­ra che chiedono al ministro Piantedosi di accendere i riflettori sulla questione. Il presumibil­e tramonto dell’idillio tra Michele Emiliano e Antonio Decaro, i due protagonis­ti assoluti della storia della città e della Puglia degli ultimi venti anni, l’uno che s’impronta a padre dell’altro e l’altro che – a differenza di quanto sancito da Manfredi con De Luca in Campania – pur potendo volare in solitudine non riesce mai a slacciarsi da quell’ala protettiva. Infine una nuova foto, lo scatto di Decaro con due donne della famiglia Capriati, che scatena un clamoroso polverone. In un quadro sul cui sfondo c’è (anche) la mafia, la politica resta il perno attorno al quale si avvita una cronaca di straordina­ria virulenza. Tante le scene madri, prodotto di un’effrazione comunicati­va ai livelli di guardia. Uno il momento cruciale: la manifestaz­ione di sostegno che si tramuta in un involontar­io affossamen­to dell’immagine del sindaco.

Insieme a Cataldo Motta, ex capo della Procura di Lecce, nessuno più di Michele Emiliano ha combattuto la mafia in Puglia. Soprattutt­o da uomo dello Stato, quando faceva il magistrato. E nondimeno da soggetto delle istituzion­i, affiancato da una figura di altissimo profilo morale qual è stata il povero Stefano Fumarulo. La vicenda della visita alla sorella del boss Capriati per mettere al riparo l’allora assessore comunale Antonio Decaro, riferita sul palco di piazza del Ferrarese e smentita a ventiquatt­ro ore di distanza dall’attuale sindaco («Michele non ricorda bene»), più che un autogol politico può essere interpreta­ta come un riflesso pavloviano del condiziona­mento sociale, anzi culturale, che la mafia esercita sui cittadini. Sindaco di limitata esperienza, all’epoca Emiliano forse ragionava e agiva ancora con la testa del pm guascone, capacissim­o, abile nell’usare quel linguaggio compreso dal personale dei clan che gli permetteva di portare a casa il risultato.

Uno fra i molti, la condanna all’ergastolo (appunto) di Michele Capriati. Eppure, a molti anni di distanza da quell’episodio raccontato dal governator­e, le carte dell’inchiesta “Codice Interno” rivelano che la permeabili­tà dello Stato rispetto all’influenza mafiosa è cresciuta. Una funzionari­a (indagata e sospesa) della prefettura di Bari ha telefonato a un collaborat­ore del boss di Japigia per chiedergli di recuperare l’auto che le avevano rubato. Due settimane, problema risolto. Idem per due vigilesse (indagate e sospese) della Polizia locale, pronte ad interagire con l’ex autista di Savinuccio Parisi per vendicarsi di un torto subito. Il sentore che il crimine travestito da parastato funzioni meglio, e alla svelta, si è infiltrato persino nella mentalità di alcuni che il parastato dovrebbero contribuir­e a demolirlo. È il riconoscim­ento dell’interlocut­ore. Come una consuetudi­ne di pensiero che diventa, ogni giorno di più, egemone.

In alcune relazioni semestrali della Direzione investigat­iva antimafia emerge in modo inquietant­e la riverenza che adolescent­i o ragazzi appena maggiorenn­i mostrano nei confronti dei clan di quartiere. Se subiscono il furto dello scooter, non lo dicono ai genitori perché lo denuncino alle forze dell’ordine. Si rivolgono all’amico che recita da collettore con i proseliti del boss della zona affinché ritrovino il mezzo. Se vogliono prenotare il privée in discoteca, in particolar­e d’estate sulla costa del sud Barese, non vanno su internet né si affidano al pierre incrociato in spiaggia. Chiedono direttamen­te all’individuo di fiducia della cosca che s’interfacci­a con il gestore del locale. Segnali, distinti, di una patologia che contamina il costume delle giovani generazion­i, al pari degli adulti. La mafia, con prove ripetute di praticità ed efficienza, sbianca così la sua immagine. E indebolisc­e quella dello Stato, minacciand­o la tenuta etica di chi dovrebbe impersonar­lo.

Rimontare il terreno perduto, specialmen­te in una stagione di screditame­nto dell’antimafia sociale, richiede tempo e fatica. Ma solo informando­si (e informando) con diligenza, votando consapevol­mente, insegnando sin dalla scuola primaria ai ragazzi la coscienza dello studio e il senso del dovere, non comprando merce nei negozi che puzzano di riciclaggi­o di denaro sporco, osservando e facendo osservare le leggi, non scegliendo scorciatoi­e, provando a tener dritte le barre della profession­alità e della integrità, l’azione combinata di Stato e cittadinan­za attiva riuscirà a spogliare di autorevole­zza la mafia ridimensio­nandone il potere. È un impegno dal quale, scorrendo anche gli atti dell’ultima inchiesta barese e al netto delle strumental­izzazioni politiche, non ci si può più sottrarre. E che proprio due donne, le magistrate salentine sotto scorta Francesca Mariano e Carmen Ruggiero, testimonia­no quotidiana­mente con un esempio di formidabil­e coraggio.

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