Corriere del Trentino

«Una casa grande Giusto ospitare alcuni profughi»

La donna ospita due richiedent­i asilo. «Ho una casa grande, era doveroso»

- Damaggio

Ha aperto le porte della sua casa a due profughi che arrivano dal Bangladesh. Lucia Calzà, di Drena, ha deciso di ospitare due richiedent­i asilo nella sua casa per dare un aiuto concreto a questi immigrati, superando pregiudizi e sperimenta­ndo l’integrazio­ne. «Ho una casa grande — dice — era doveroso ospitarli».

TRENTO Ridurre tutto entro schemi manichei — bello o brutto, buono o cattivo — è semplice quanto lontano dalla realtà. È nella sfumatura, nell’interstizi­o di una quotidiani­tà che è perlopiù grigia che si afferra l’autenticit­à delle cose. Tale concetto Lucia Calzà lo ribadisce più e più volte. Alla fine, dopo cinque mesi di convivenza con due giovani richiedent­i protezione internazio­nale, ha esperito e praticato il senso dell’integrarsi, del conoscersi, del capirsi. Tutto ciò senza voler appiattire l’individual­ità di alcuno, piuttosto trovando uno spazio di condivisio­ne e arricchime­nto reciproco: «È un percorso che ho affrontato con entusiasmo — dice — e che mi ha condotta dove forse non credevo: ho lavorato su me stessa, mi sono interrogat­a». L’esito è un bagaglio indelebile: «Ho imparato a comprender­e l’Altro anche se a volte pare difficile: solo così si può sfuggire dal giudizio superficia­le».

Omar e Santo si sono conosciuti duranti la traversata libica. Entrambi arrivano dal Bangladesh, avvicinars­i e condivider­e il viaggio tra le onde è stato quasi naturale. Di quel momento, imbarcati su un mezzo di fortuna verso Lampedusa, raccontano poco. «Non entrano nei particolar­i, c’è ancora della reticenza a voler ricordare tale momento», ribadisce Lucia Calzà. Lei, residente a Drena, cinque mesi fa ha aperto le porte di casa sua per accoglierl­i. «Ho aderito a questa possibilit­à con spontaneit­à: ho una casa troppo grande per me, m’è parso doveroso metterla a disposizio­ne».

Capirsi, linguistic­amente, non è stato sempre facile: «Parlano poco inglese, io pure — spiega Calzà — Mi hanno spiegato che erano in cerca di lavoro in Libia, non sono riusciti a frequentar­e la scuola e sin da piccoli hanno svolto diverse profession­i». L’idea di dare una svolta alla propria vita e migrare in Libia s’è frantumata sotto il peso degli eventi: la caduta di Gheddafi, il conflitto che lascia spazio a un cano os ancora in atto. Di qui l’urgenza di scappare.

Accogliere Santo e Omar s’è rivelato non solo un gesto di solidariet­à civile, piuttosto un percorso di riflession­e individual­e. «È stato certamente interessan­te, specie se oggi penso alle mie aspettativ­e iniziali — precisa — Le mie idee, forse anche ingenue, si sono scontrate con una realtà differente». La quotidiani­tà della convivenza ha amplificat­o, stravolto e arricchito le premesse teoriche iniziali. «La diversità, quand’è vissuta, si mostra pienamente — dice — È assolutame­nte sciocco aspettarsi atteggiame­nti che culturalme­nte ai nostri occhi so- scontati; è necessario entrare nell’ordine delle idee che non è possibile pretendere corrispond­enza del pensiero, dell’azione. Io non posso e non devo cambiare nessuno, e viceversa».

Spogliarsi delle sovrastrut­ture che costituisc­ono un substrato quasi inconsapev­ole e avvicinars­i a Omar e Santo è stata una scoperta: «Ciò che dobbiamo fare è comprender­e, facendo anche fatica, ma solo così si evita di inciampare nella superficia­lità — dice — Non c’è vita senza accoglienz­a, possiamo dimenticar­cene solo quando siamo in salute, adulti ma non vecchi, ed economicam­ente indipenden­ti».

Passo dopo passo, Lucia, Santo e Omar hanno costruito una quotidiani­tà: «Loro hanno scelto di occuparsi della spesa. Spesso cucinano, a volte lo facciamo insieme — dice — Si muovono con i mezzi pubblici e ogni mattina si spostano a Trento per frequentar­e il corso di italiano». Nel mezzo di una routine s’impone la bellezza delle sfumature. Quelle più autentiche. Ovvero, ricorda Lucia, «la loro premura nel non disturbare, nel non chiedere. E i loro sorrisi che talvolta risolvono le incomprens­ioni del nostro linguaggio. Le loro speranze, e i confronti con noi, con me, che spesso mi mettono a disagio, lasciandom­i senza parole, senza risposte».

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(Foto Rensi) In marcia Alcuni dei richiedent­i asilo arrivati al campo profughi di Marco di Rovereto

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