«Integrazione Non guardare alle radici»
TRENTO Non è una questione di «razze», ma di «periferie», non di «gruppi», ma di «transizioni». Adel Jabbar, sociologo dei processi migratori e delle relazioni transculturali, per spiegare le difficoltà identitarie degli immigrati di seconda generazione chiede di ribaltare prospettiva: «Non dobbiamo guardare alle radici, ma alle nuvole».
Professore, questi ragazzi, nati e cresciuti qui, non si sentono italiani. Come mai?
«I figli delle migrazioni appartengono a fasce deboli della società. I loro genitori non sono venuti in Italia per la cultura, ma per la “condizione del pane”. Le loro terre promesse si sono sgretolate e si sono ritrovati ai margini. Secondo molte ricerche, infatti, chi ha origini straniere avverte una percezione di ostilità nei propri confronti ed è più distante dalla società circostante».
Quale rischio porta questa marginalità?
«In un periodo come questo, in cui ovunque prevalgono “cantucci identitari”, c’è il rischio che i figli delle migrazioni si auto-ghettizzino, che si creino tribù in una società sempre più frammentata».
Le politiche dell’integrazione hanno fallito?
«Sì. In tutti i paesi occidentali si è adottato lo stesso modello: l’interculturalità. Ma non va bene: non esistono nicchie culturali statiche, le culture sono dinamiche, ogni giorno facciamo esperienza di identità diverse. Perciò dovremmo adottare modelli transculturali».
Cosa vuol dire?
«Vuol dire uscire dall’asimmetria per cui consideriamo gli immigrati subalterni, semplice manodopera contrattualmente debole. Dovremmo invece indagarne la condizione socio-economica e smettere di essere prigionieri di parole prive di senso come “identità”, “radici”, “culture”, “etnie”: ostacolano la comprensione».
Cos’altro ostacola l’integrazione?
«Gli stereotipi, il folklore, le etichette, lo pseudo dialogo fatto di esperimenti spot. Cosa facciamo davvero per questi ragazzi? Nulla. Sono nati in Italia ma a 18 anni devono fare richiesta di cittadinanza, scoprendosi tutto a un tratto stranieri».
La politica è stata poco lungimirante?
«La politica è disconnessa dalla realtà. Le disuguaglianze sono il grande problema: pochi sono in prima fila e accedono a tutte le risorse, gli altri non hanno voce in capitolo».
E la scuola che ruolo gioca?
«È l’unico luogo ancora democratico e transculturale. Dobbiamo capire come riproporre tale modello anche fuori dalle classi: è la nostra grande e faticosa sfida: finora abbiamo incentivato gli stranieri a riunirsi per “comunità”, ora dobbiamo spingerli a mettersi in gioco, incentivando aggregazioni tra persone diverse, ridando peso al soggetto e ai paesaggi culturali che attraversa. I figli delle migrazioni non sono piante, non hanno bisogno di radici, ma di nuvole».