Gli scafisti si agganciano via internet
TRENTO Profili Instagram millantanti proposte di lavoro in Europa non meglio specificate oppure indicanti numeri da contattare rigorosamente via WhatsApp. Pagine Facebook con video live di trafficanti che spiegano come aggirare determinate leggi sulla migrazione ed elencano i tariffari. Internet e i social network sono ampiamente utilizzati nella tratta di esseri umani e nel traffico di migranti e richiedenti asilo: a denunciarlo sono i risultati del progetto europeo «Surf and sound», coordinato dal gruppo di ricerca eCrime dell’università di Trento, presentati ieri mattina alla facoltà di giurisprudenza. «Basta vedere cosa sta succedendo nel Mediterraneo ormai da qualche anno per capire come sia inevitabile che internet, veloce e anonimo, venga utilizzato per mettere in contatto domanda e offerta — spiega il coordinatore scientifico di eCrime Andrea Di Nicola — il nostro obiettivo è stato trasformare la conoscenza che abbiamo acquisito sul fenomeno in strategie per forze dell’ordine e organizzazioni non governative».
Al progetto, il primo in Europa di questo genere, i ricercatori dell’ateneo trentino, dell’università britannica di Teesside, del Centro per lo studio della democrazia in Bulgaria e del Centro rumeno per le politiche europee, hanno lavorato per tre anni, con un finanziamento di 300.000 euro, confermando come internet venga impiegato in modo massiccio nelle varie fasi di reclutamento, trasporto e — in riferimento alla tratta — sfruttamento, sia nei Paesi d’origine o di transito che in quelli di destinazione. La rete permette ai criminali di rimanere distanti dalla transazione illecita e l’utilizzo di specifiche applicazioni di rimanere pressoché irrintracciabili. Come l’hanno scoperto? Attraverso l’etnografia virtuale. Ovvero «lo studio di un fenomeno condotto immergendovisi» chiosa Di Nicola. In altre parole, i ricercatori si sono finti clienti e hanno telefonato ai trafficanti, chattato insieme a loro via Messenger, Viber e WhatsApp, osservato i gruppi dedicati, seguito e commentato i vari post. «La chiave di volta — rivela Elisa Martini di eCrime — è stata chiedere aiuto a uno studioso che conoscesse ben quattro dialetti dell’arabo». È la svolta che dà il la alla ricerca. «A livello numerico, la maggioranza di elementi che abbiamo trovato online sono relativi allo sfruttamento sessuale» aggiunge la ricercatrice. I social network sono stati i canali che prevalentemente hanno permesso di identificare elementi inerenti al reclutamento. Per non parlare del dark web, quella parte di internet che non può essere raggiunta attraverso i comuni motori di ricerca, dove si rintraccia anche materiale pedopornografico. Il progetto ha consentito di identificare alcuni indicatori per riconoscere gli annunci più a rischio, in tema di sfruttamento lavorativo o sessuale: ad esempio la pubblicizzazione di lavori senza informazioni dettagliate sulle mansioni da svolgere, sul luogo e sul datore di lavoro o l’utilizzo di foto uguali in siti o annunci diversi con informazioni differenti sulla persona e sulle prestazioni.
Per quanto riguarda il traffico di migranti o richiedenti asilo invece, la promozione avviene alla luce del sole: sono centinaia i profili, le pagine e i post sui social network, specialmente Facebook, ma anche Instagram e Twitter, soprattutto in lingua araba o urdu, attraverso cui i trafficanti pubblicizzano i loro servizi con l’indicazione di rotte, prezzi, documenti di viaggio acquistabili, numeri telefonici. «Sarebbe molto utile creare strumenti innovativi Ict che consentissero un’analisi automatica e un monitoraggio costante per supportare il lavoro delle forze dell’ordine visto l’enorme ammontare dei dati — sostiene Gabriele Baratto di eCrime — occorrerebbe, inoltre, più cooperazione internazionale. Per le organizzazioni non governative, invece, sono importanti le campagne di sensibilizzazione online mirate, soprattutto ai più giovani, ma anche agli stessi social network, affinché adottino misure adeguate per rimuovere certi contenuti».