SEVERINO PETTA, IL SOPRAVVISSUTO
Il sopravvissuto Petta: «Una madre camminò 4 chilometri con il figlio morto»
La delegazione regionale ha rivissuto, grazie a Severino Petta, la strage di Portella delle Ginestre.
Continua il viaggio della delegazione regionale in Sicilia nell’ambito del progetto «Campi della legalità» promosso dall’Arci. Ieri i ragazzi hanno rivissuto la strage di Portella della Ginestra attraverso il racconto di un sopravvissuto.
Prendiamoci un attimo per riflettere. Spesso diamo per scontati alcuni aspetti della nostra vita come, ad esempio, la fortuna che abbiamo ad avere diritti acquisiti grazie alla forza e determinazione delle persone che hanno lottato per il «futuro». Riteniamo giusto evidenziare questa parola perché spesso dimentichiamo quanto siano importanti le vittorie come il diritto all’istruzione pubblica, la democrazia, la costituzione, il suffragio universale, i diritti dei lavoratori, i sindacati. La riflessione è sorta in seguito alla visita di ieri a Portella della Ginestra, dove abbiamo incontrato Serafino Petta, uno degli ultimi testimoni che da 70 anni racconta il tragico evento avvenuto il primo maggio 1947. Alcuni di noi si sono commossi ad ascoltare le semplici e toccanti parole con le quali Serafino descriveva la strage ed i momenti che la seguirono. La festa dei lavoratori di Portella della Ginestra nasce negli anni ’20 assieme ai Fasci dei Lavoratori ed alle prime cooperative di contadini siciliane che cercavano uniti di far sentire la propria voce per ottenere diritti e dignità per se stessi e le proprie famiglie. Questo luogo fu scelto perché centrale rispetto ai 3 paesi limitrofi di Piana degli Albanesi, San Cipirello e San Giuseppe Jato. Durante il regime fascista questa festa venne abolita ed i mezzadri siciliani abbandonati nelle mani dei latifondisti, che sul territorio corrispondevano ai capi mandamento mafiosi delle tre frazioni. Fu poi solo nel 1944, quando gli alleati avevano appena liberato il sud Italia, che si poté tornare nuovamente a festeggiare la festa dei lavoratori in questa conca fra le montagne. Nell’immediato dopoguerra le condizioni dei contadini erano quasi peggiorate: mancava il cibo al punto che per molti la festa del primo maggio diventava un’occasione unica per fare un pasto completo con pane vino e formaggio, in quanto nei giorni precedenti la manifestazione si chiedeva alle famiglie più fortunate di donare qualcosa da mangiare. Tutto quello che si riusciva a raccogliere veniva sistemato su dei carri di modo che, dopo il consueto discorso da parte dei sindacati, tutti i partecipanti potessero avere da mangiare e da bere per festeggiare insieme. Caduto definitivamente il regime erano riusciti a far valere le proprie idee alle ultime elezioni regionali, poiché la coalizione che li rappresentava e che difendeva i loro diritti di fronte allo strapotere dei latifondisti aveva raggiunto la maggioranza relativa, facendo auspicare finalmente un cambiamento sostanziale del sistema agricolo siciliano. Sembrerebbe tutto molto bello e così fu fino a quel maledetto primo maggio del 1947, fino a quando al nome di Portella della Ginestra fu affiancato il sostantivo «strage». Portella quando ci arrivi coi furgoni non sembra un granché. C’è un grande parcheggio ora, un piccolo anfiteatro e dall’altra parte della strada dei grossi massi e un muretto. Poi scopri che il muretto rappresenta in realtà la traiettoria degli spari che il bandito Giuliano e la sua banda esplosero da dietro alcune rocce falciando la folla riunita per il comizio. E quei grossi massi non sono rocce a caso, franate per qualche motivo, ma sono stati sistemati in punti precisi, in quei punti nei quali le 11 persone vittime della strage caddero riverse al suolo prive di vita. Sono state le parole di Serafino, che, con il suo linguaggio semplice ma profondo, è stato in grado di farci rivivere il clima di quegli anni difficili. La sua testimonianza ci ha fatto capire come la mafia non guardi in faccia nessuno quando si parla di interessi, fino ad arrivare ad uccidere bambini, ragazzi, donne e uomini innocenti che, come lui stesso ci ha spiegato, «non chiedevano la luna ma semplicemente un pezzo di pane». «Ho visto una madre portare il cadavere del figlio di soli quattordici anni per 4 chilometri tra le braccia» ci racconta per descrivere quanto i corpi dei giovani erano scheletrici a causa della denutrizione. Ed ancora: «Un giorno un giovane ci bussò alla porta di casa, probabilmente perché aveva visto del fumo che usciva dal camino chiedendo umilmente dell’acqua calda per scaldarsi lo stomaco, non mangiava da alcuni giorni e noi lo abbiamo accolto in casa come un fratello condividendo con lui il nostro pasto».
Nonostante le povertà e la sofferenze le persone pensavano le une alle altre, vivevano in gruppo e per il gruppo in un clima di fratellanza. Il giorno della festa dei lavoratori del 1947 le loro speranze sono state tradite in un clima di festa e serenità, nel quale nessuno si sarebbe mai aspettato una simile tragedia. Dopo questo incontro non possiamo più dare per scontato quello che abbiamo, non possiamo più rimanere indifferenti e in disparte, dobbiamo diventare nel nostro piccolo protagonisti attivi e prenderci cura della nostra società.