L’EREDITÀ COLONIALE
Il dibattito sull’immigrazione soffre di alcune amnesie. Il colonialismo, per esempio, è stato un fenomeno di conquista e sangue — i valori della nostra civiltà? — che nei secoli ha determinato un’espansione senza precedenti in tutti i continenti. L’eredità coloniale è una trama fitta e articolata, un dispositivo che ha generato la globalizzazione e le intarsiature delle società coeve. Il moto coloniale è stato così ossessivo (e mortale) che la storia di molti popoli è stata inghiottita nel gorgo più ampio della Storia occidentale diventandone un frammento di passato o persino nulla. Lo storico indiano Ranajit Guha, fondatore del collettivo dei Subaltern Studies, ha scritto: «Mondo e storia: si potrebbe pensare che insieme costituiscano uno spazio sufficientemente ampio da comprendere tutte le storiografie. Ma non è stato così: interi continenti e le loro popolazioni sono sempre stati esclusi dalla storia».
Di colonialismo si è sempre parlato poco in Occidente. L’«altro» ha vissuto nel limbo della rappresentazione. Dipesh Chakrabarty, un altro storico indiano del filone di ricerca postcoloniale, affermava che per quanto riguarda «la storia come discorso prodotto all’interno del contesto istituzionale dell’università, l’Europa rimane il soggetto teorico sovrano di tutte le storie, incluse quelle che chiamiamo “indiana”, “cinese”, “keniota” e così via. Tutte le altre storie diventano variazione di una narrazione principale che può essere definita “storia dell’Europa”».
Il colonialismo è stato uno dei fattori alla base dell’interdipendenza che lega mondi un tempo lontani. Ancora oggi, malgrado il periodo di stallo, l’influenza politica dei Paesi occidentali sugli altri continenti è enorme e lo osserviamo nella quotidianità dei dispacci. È come una rete a strascico che cerca di tirare tutto a sé, migranti compresi.
Nel dibattito pubblico locale, nazionale e europeo sull’immigrazione fa specie che non ci sia mai un’assunzione di responsabilità verso l’esperienza coloniale. È stata un’ipoteca su generazioni di persone, alcune delle quali hanno pensato nei momenti di difficoltà di raggiungere i lidi degli ex dominatori. È l’esito delle interdipendenze create. Disquisire di «nostra società» o di parametri di accesso alle comunità rischia di essere solo un riflesso di un senso di superiorità ingiustificato. «Al tempo vuoto e omogeneo del capitale», come scrive Partha Chatterjee, è preferibile il «tempo eterogeneo e pieno» delle tanti voci che cercano ora una collocazione nella storia e in una società plurale.