L’Asia moderna narrata da Tash Aw Miscuglio di facce
Lo scrittore Tash Aw lunedì all’Arcadia di Rovereto «Volti e storie ci differenziano ma siamo tutti uguali»
«Same-same, tale e quale un thailandese, rispondono allegramente quando la mia identità è finalmente svelata. Disegnano con l’indice il contorno della faccia: la mia faccia è la loro faccia. Tali e quali a me. Forse non ha a che fare con le nostre facce, ma con il nostro desiderio che tutti ci somiglino. Vogliamo che lo straniero sia uno di noi, qualcuno che possiamo capire».
La narrazione è in prima persona, e immediatamente coinvolge: eccoci in un taxi a Bangkok, poi in Nepal, sulle colline a ovest di Pokhara, quindi all’imbarco di un volo della Cathay Pacific da Shanghai a Hong Kong. Tutto in una ventina di righe, per approdare d’improvviso nel luogo in cui ogni percorso convoglia e s’intreccia: la faccia vista come una sedimentazione di storie. Con rapide pennellate, attraverso le pagine di
Stranieri su un molo (add editore) Tash Aw conduce il lettore a conoscere la vitalità culturale dell’Asia moderna. La libreria Arcadia è riuscita a intercettare lo scrittore malese al rientro dal Festival di Internazionale a Ferrara (che si conclude domani), offrendo così al pubblico un’opportunità da cogliere al volo: sarà infatti possibile incontrare Tash Aw lunedì alle 19 presso Arcadia, in via Fontana, a Rovereto.
Aw Ta-Shii nasce a Tapei da genitori malesi e cresce a Kuala Lumpur. Si trasferisce in Gran Bretagna, quindi a Londra. La vera storia di
Johnny Lim, il suo primo romanzo, è tradotto in quindici lingue e ha vinto il Whitbread Book Award 2005 e il Commowealth Writers’ Prize 2005. Stranieri su un molo narra una complessa vicenda familiare fatta di migrazione e adattamento. Gli stranieri, smarriti su un molo, sono i nonni dell’autore dopo l’insidioso viaggio in barca per fuggire dalla Cina verso la Malesia negli anni Venti.
Tash Aw, «Stranieri su un molo» si apre sul volto dell’io narrante che, come un libro, permette una lettura a diversi livelli di profondità. Quali vicende vi sono incise?
«La faccia narra intere culture e storie di cui noi siamo parte, che ci congiungono ad altri tempi e luoghi nel mondo. La mia faccia è malese ed è anche cinese. Andando oltre la superficie, nei miei tratti sono presenti generazioni di immigrati, di unioni tra persone e culture nei vari continenti. Vi si legge l’uscita dei mie avi dalla Cina, la loro povertà, le ambizioni, i fallimenti e il loro amore. Tendiamo a pensare al nostro viso come a qualcosa di individuale, ma si tratta di una prospettiva narcisistica che esclude la complessità. Ci è solo permesso di essere “malaysiani” o “italiani”, o “americani”, e così via. Questo rende la nostra storia estremamente semplicistica».
«Vogliamo che lo straniero sia uno di noi, qualcuno che possiamo capire», lei osserva in incipit. Dunque, quando lo straniero smette di essere straniero?
«Accade quando gli “insider”, i locali, smettono di guardare a lui come straniero. La responsabilità di chiedersi perché esistano le nozioni di straniero e di cittadino, e il significato di queste identità ricadono su chi appartiene alla maggioranza politica e culturale. Quando ero bambino, mi sentivo semplicemente un malese, non avevo idea di essere diverso dalle persone che conoscevo. Ma quando ho iniziato la scuola, sentendo ripetere la parola “Cina” ho compreso che ero uno straniero».
Sin da Marco Polo, l’Occidente subisce il fascino dell’Oriente da diversi punti di vista. Ma l’Oriente come guarda all’Occidente?.
«In Oriente le persone non hanno meno che in Occidente. Spesso, l’Europa è derisa o mitizzata ingiustamente. Per esempio: gli europei sono pigri, ma hanno una ricca cultura. Oppure, gli europei hanno un elevato standard di vita, ma il loro cibo è terribile. In parte, ciò si collega a una certa insicurezza derivante da secoli di colonialismo in Asia. Oltre a ciò, da Marco Polo ad oggi, tra Oriente e Occidente non è mai intercorsa una volontà di comprensione autentica».
I cinesi che si sono stabiliti nel nostro Paese, acquistando esercizi commerciali e piccole e grandi aziende, restano un po’ un mistero per gli italiani: dal suo punto di vista in Europa c’è un interscambio culturale?
«In realtà, ritengo che lo scambio culturale in Europa stia diminuendo. Durante gli anni Novanta, l’apertura dei confini era percepita come inevitabile e necessaria, ma ora prevalgono i piccoli nazionalismi. L’Europa tende ad attribuire ciò all’immigrazione, senza però interrogarsi sulle ragioni del fenomeno o sul perché gli immigrati costituiscano “un mistero”. È necessario ripensare il nostro intero approccio a tutto questo. Il flusso di persone da un Paese all’altro è parte di un lungo fenomeno storico e ciò che vediamo ora è inestricabilmente legato agli interessi economici coloniali occidentali e globali».
La Cina appare come un monolite culturale; è un problema di percezione o, davvero in una nazione tanto grande, non esistono differenze?
«Si tratta di una percezione completamente errata. È sufficiente un viaggio di un paio di settimane in Cina per comprendere quante diversità intercorrano in termini di cultura, lingua e etnia. Anche tra Shanghai e Pechino, ci sono differenze fondamentali nel modo in cui la gente guarda, parla e pensa. La politica “One China” promossa dal governo cinese rappresenta una delle grandi ironie dell’immagine della Cina».