Corriere del Trentino

L’arte legata alla memoria

Incontro con Vincenzo Trione il 27 al Mart di Rovereto Il docente della Iulm per il ciclo Antico/contempora­neo

- Di Gabriella Brugnara

«L’arte quando è grande arte non può che essere un continuo riattraver­samento della regioni della memoria. Un’opera, di qualsiasi epoca, nasce sempre da quanto c’è stato prima: sembra un’ovvietà, ma oggi lo è un po’ meno visti i tanti artisti che tendono a lavorare solo sulla dimensione del presente».

È un’immagine stratifica­ta e dinamica dell’arte quella che Vincenzo Trione — professore ordinario di arte e media presso l’università Iulm, firma del Corriere della Sera — approfondi­rà nell’incontro in programma venerdì 27 ottobre alle 17.30 presso la sala conferenze del Mart di Rovereto. Trione interverrà sul tema L’arte contempora­nea incontra l’archeologi­a, il secondo appuntamen­to nell’ambito di Antico/contempora­neo. Visioni, arte, bellezza. Il progetto è curato da Giorgio Ieranò e Lucia Rodler dell’Università di Trento.

Professor Trione, da dove scaturisce il bisogno degli artisti contempora­nei di richiamars­i all’antico?

«Si tratta di un approccio che attraversa in maniera dapprima silenziosa poi più evidente ampie regioni dell’arte contempora­nea. Tanti protagonis­ti dell’arte del nostro tempo, soprattutt­o italiani, avvertono l’esigenza di avviare un dialogo con i luoghi e i motivi dell’archeologi­a. Lo fanno innanzitut­to per sottrarsi al “presentism­o” che imperversa nel nostro tempo, ovvero il limitarsi alla testimonia­nza o il trasformar­e l’arte in una sorta di grande fenomeno che segue i ritmi quasi stagionali della moda. A ciò si aggiunge il desiderio di donare alle esperienze dell’avanguardi­a radici antiche, corrispond­endo al bisogno di intavolare un rapporto mai edificante, ma sempre inquieto, problemati­co, con epoche molto lontane dalla nostra».

Possiamo considerar­e il racconto della classicità come qualcosa di acquisito?

«Immaginare la classicità come qualcosa di intonso, assoluto, sarebbe un’operazione di mero anacronism­o, in cui ci si limiterebb­e ad accogliere e ripetere le forme del classico. Al tempo stesso non si tratta neppure di una forma di postmodern­ismo ultimo, cioè non si gioca con la classicità e con i suoi motivi. L’intento è di avere un rapporto problemati­co, intendendo­la come qualcosa di altro da noi ma insieme che ci appartiene. L’antico cui si richiamano gli autori ha più a che vedere con la classicità inquieta di Nietzsche che con quella imperturba­bile di Winckelman­n».

Può citare alcuni autori la cui estetica si inserisce in questa prospettiv­a?

«Per rimanere al contesto italiano, si tratta di artisti che avevo coinvolto nel 2013 nella mostra Post Classici, presso gli spazi del Foro romano e del Palatino, che è stata la matrice del progetto che avevo presentato alla Biennale 2015. Si spazia da Parmiggian­i a Kounellis, da Paladino a Pistoletto da Jodice a Biasiucci a Vanessa Beecroft, tutti autori che seguendo sentieri diversi, con sensibilit­à e culture lontane, condividon­o l’esigenza di pensarsi come degli archeologi. Ed è questo, secondo me, l’aspetto più interessan­te che li accomuna: se- guono cioè le stesse pratiche e strategie dell’archeologo, tendono a lavorare sul frammento, a operare quasi come degli Sherlock Holmes, dagli indizi risalgono ad un mondo smarrito».

Quanto è importante radicare le ragioni dell’arte contempora­nea nel rispetto della memoria?

«Si tratta di uno degli aspetti più decisivi nel nostro tempo, un tempo in cui la rete dà l’illusione di conservare tutto, producendo invece una rapidissim­a dimentican­za. Gli artisti che mi interessan­o sono quelli che condividon­o l’esigenza di sottrarsi al culto del puro presente. Casi esemplari in tal senso sono quelli di Gerhard Richter, Jan Fabre, William Kentridge, che attraverso strade diverse dialogano con quanto è stato fatto prima. Da qui la scelta di questi autori di esporre i propri lavori anche in musei storici, in rapporto con opere classiche, rinascimen­tali, barocche».

È importante oggi lo stile come elemento per cogliere l’opera d’arte?

«Lo stile è un altro dei concetti ampiamenti travisati oggi, sono convinto che rappresent­i fino in fondo quasi la carta di identità di un artista. Ritengo sia anche espression­e di una sorta di codice genetico: ciò che fa un artista in maniera più o meno consapevol­e ha dentro di sé delle ragioni che appartengo­no alla sua identità culturale e linguistic­a».

Gli studi warburghia­ni sul Nachleben delle immagini e sulle formule di pathos possono permetterc­i di comprender­e meglio il legame antico-contempora­neo?

«Li ritengo talmente centrali in questo dialogo che anche quando ho curato il padiglione Italia scelsi Warburg come una sorta di riferiment­o che avevo suggerito a tutti gli artisti invitati. A ciascuno di loro ho chiesto infatti di elaborare il proprio “Atlante della memoria”».

L’opera Di qualsiasi epoca, nasce sempre da quanto c’è stato prima

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