L’analisi di Graziano «La poliarchia indebolisce le fedi»
L’analisi di Graziano, professore di geopolitica alla Sorbona Il docente sarà a Trento per il convegno su testi sacri e atti brutali «La poliarchia delle autorità rende le fedi strumentalizzabili»
Quello tra religione e violenza è un legame che pensavamo relegato a un passato brutale, alle crociate, alle persecuzioni degli eretici, alle guerre di religione del ’500-’600. Invece nuovi fenomeni contemporanei come il terrorismo islamista rendono l’analisi di tale legame quanto mai attuale e necessaria. A Trento da martedì a giovedì si terrà il convegno «Exiting Violence: the role of religion. From texts to theories», organizzato da Reset-dialogues in collaborazione con la Fondazione Bruno Kessler e il Berkley center for religion, peace, and world affairs. Il convegno coinvolgerà esperti e studiosi internazionali, tra i quali Massimo Campanini (Accademia ambrosiana di Milano), Donatella Dolcini (università di Milano), Irene Jillson (Georgetown University) e Manlio Graziano, docente di Geopolitica delle religioni alla Sorbona e all’American graduate school di Parigi, intervistato per l’occasione.
Professor Graziano, nella sua analisi il legame tra religione e violenza è rivelatore dell’intima essenza politica delle religioni.
«Nell’analisi delle religioni come fenomeni politici bisogna prescindere dai testi sacri, nei quali passaggi violenti e sobillatori sono effettivamente presenti ma così come qualunque altra cosa: i testi sacri possono essere interpretati in qualunque modo, con essi è possibile giustificare tutto e il contrario di tutto. La religione può così diventare un attrezzo politico. Non è raro vedere i candidati avversari nelle elezioni statunitensi sfidarsi a colpi di citazioni bibliche, qualsivoglia sia l’argomento del quale discutono».
Qual è l’argine a questa strumentalizzazione ad hoc dei testi sacri?
«Un interprete unico e autorizzato, una guida forte e riconosciuta, quella che ha ad esempio la chiesa cattolica con il Papa e non hanno invece le migliaia di chiese evangeliche. Se una confessione religiosa dispone di una struttura gerarchica le inferenze sono ridotte al minimo; ma vale anche il contrario e per questo religioni acefale come l’islam e l’induismo sono permeabili da interessi esterni. L’Arabia Saudita ad esempio ha contributo alla frantumazione del mondo islamico usando i suoi petrodollari per diffondere il verbo wahabita contro le ingerenze iraniane sciite. La poliarchia delle autorità confessionali – che all’estremo diventa anarchia – rende le religioni uno strumento nelle mani di chiunque voglia utilizzarle».
Perché mediaticamente si parla esclusivamente di terrorismo islamico e mai di terrorismo cattolico?
«Per lo stesso motivo, dipende dalla presenza o meno di un’autorità religiosa centrale capace di smarcarsi dall’accusa che la sua dottrina abbia ispirato un atto terroristico: se l’attentatore si dichiara cristiano (come fece inizialmente Anders Breivik, l’autore della strage di Utøya nel 2011) la Chiesa lo sconfesserà immediatamente; nella miriade di autorità islamiche ci sarà invece chi condannerà l’attentatore musulmano, chi lo giustificherà e anche chi lo elogerà facendone un martire. Negli Usa comunque l’etichetta “christian terrorism” è diffusa – pensiamo al Ku klux klan – ma proprio a causa dell’enorme varietà di chiese protestanti e gruppi della destra evangelica; il discrimine starà sempre nella presenza di un’autorità centrale che condanni i gesti di violenza compiuti in nome della religione».
Uccidere in nome di Dio sembra una formula così anacronistica.
«Non lo è nella misura in cui essa viene fatta propria per giustificare atti violenti che hanno pesanti ricadute geopolitiche. A partire dagli anni Settanta si è verificata una vera e propria svolta, il “ritorno e la rivincita di Dio”, con una conseguente riconsacrazione della politica, un’alleanza tra religione e politica che ha portato ad esempio all’islamizzazione dell’Egitto e della rivoluzione iraniana e alla
reinvenzione geopolitica della guerra santa. Evidente poi il ruolo che ha avuto la Chiesa nella caduta del regime comunista in Polonia, simboleggiata ad esempio dal fatto che nel giro di dieci anni, dal 1970 al 1980, gli operai polacchi in sciopero sono passati dal cantare l’Internazionale e la Marsigliese a celebrare l’eucaristia e intonare inni alla Madonna. Nel mondo contemporaneo non solo si uccide ma si va anche al governo nel nome di Dio: pensiamo a Narendra Modi, primo ministro dell’India, leader di un partito religioso fondamentalista».
Parlando di strumentalizzazione della religione, cosa ne pensa delle tesi di Olivier Roy sull’islamizzazione del radicalismo? Per Roy quella dei jihadisti dell’Isis è una rivolta generazionale e nichilista, causata dal disagio socioeconomico e dalla mancata integrazione, priva dunque di concrete motivazioni religiose.
«Mi trovo d’accordo con Roy ma il disagio e la mancata integrazione non sono immediatamente collegabili al terrorismo cosiddetto jihadista, anzi: la maggior parte di quegli assassini è composta da psicopatici, disadattati, delinquenti incapaci che diventano devoti musulmani all’improvviso; è capitato di sentirli dire “a me dell’islam non frega niente, voglio solo fare il jihad”. Per questo sono scettico sulla possibilità di risolvere questa situazione con l’educazione come propongono in molti, soprattutto in uno Stato come la Francia dove alcuni sostengono l’equazione salafiti uguale terroristi, dove altri accusano a priori di terrorismo i musulmani, dove si intima loro di rinunciare alla propria identità e di far parte della comunità dicendo allo stesso tempo che non potranno mai farlo. Dovrebbero essere le autorità pubbliche ad avviare contatti con l’Islam francese ma, come diceva Kissinger, “qual è il numero da chiamare?”, chi è l’interlocutore unico dell’Islam? Non c’è, ecco il problema».
Dal ’70 Abbiamo assistito al ritorno del sacro