MA L’AUTONOMIA È CULTURA DI GOVERNO
L’esito delle consultazioni referendarie svoltesi in Veneto e in Lombardia, seppure con tonalità diverse, offre alcune chiavi di lettura che proverei qui a riassumere. Da un lato sembra quasi che la questione settentrionale trovi nuovo alimento nella riaffermazione per queste due Regioni di un diverso ruolo politico; lo stesso che quei territori rifiutarono oltre un secolo e mezzo fa, in sede di unificazione nazionale, preferendo alla responsabilità politica del futuro, quella economica del presente di allora e di oggi.
Dall’altro la richiesta di autonomia — che non va mai confusa con la domanda finanziaria, perché l’autonomia è fatta anzitutto di competenze prima ancora che di risorse — testimonia un certo grado di insoddisfazione per la considerazione dello Stato verso il regionalismo che, se fu uno dei pilastri dello sviluppo e della ricostruzione postbellica, oggi appare invece come un orpello inutile; un privilegio dannoso; una politica dei due tempi — quello centrale e quello territoriale — che si ritiene non rispondente alla modernità della globalizzazione in atto.
Infine, la domanda di nuova autonomia, peraltro prevista dalla Carta costituzionale, è forse in realtà una domanda di diritti nuovi e più larghi; di cittadinanze diverse e più moderne; di efficienze di sistema capaci di contrastare gli iceberg burocratici che rompono la rotta dello sviluppo di territori vocati alla crescita, piuttosto che la realizzazione di un’antica aspirazione fondata su una diffusa storia di autogoverno. Ecco, credo che la differenza sostanziale fra le nostre realtà sia proprio questa, senza che ciò nulla tolga alle legittime aspettative delle popolazioni venete e lombarde.
Autonomia quindi come risposta a domande di innovazione sociale, economica e strutturale e, al contempo, come antidoto a ogni spinta secessionistica che, proprio negli esiti referendari, potrebbe coltivare sogni futuri. Ciò che insomma non può mai essere dimenticato è che l’autonomia non si risolve solo con più strade, più sicurezza, più ambiente, bensì con il consolidarsi di una cultura di governo locale delle risorse, senza che tale cultura sia disgiunta dalla più vasta geografia del Paese.
Questa è la strada maestra e il senso profondo dei referendum consultivi appena conclusi; una strada che deve guardare al domani, nel rispetto delle leggi vigenti dello Stato e nel segno di un’Europa unita che non potrà mai reggersi sulla somma di «piccole patrie», quanto sul dialogo fra le grandi culture nazionali che hanno costruito, nei secoli, l’Europa stessa.
Ecco perché l’ipotesi secessionistica catalana non sembra reggere alla prova della storia, perché un tale progetto è, per la sua stessa natura disgregatrice, antietico a quell’idea stessa di Unione europea che si regge sulla compenetrazioni delle culture nazionali anziché sulla loro contrapposizione.
In tale direzione guardiamo, fiduciosi comunque che un diffondersi della cultura dell’autonomia non può che giovare a tutti e aiutarci ad affrontare le sfide che i nazional-populismi, tanto di moda, sembrano porre avanti alla politica del presente.