LA SCOMMESSA DEI TERRITORI
Grazie alla risonanza mediatica dei recenti referendum in Veneto e Lombardia il dibattito su autonomie e regionalismo sembra riprendere forza.
Grazie alla risonanza mediatica dei recenti referendum in Veneto e Lombardia, il dibattito su autonomie e regionalismo sembra riprendere forza: speriamo non si esaurisca presto in una moda effimera e superficiale, come spesso accade in Italia. In tale contesto vorrei portare un piccolo contributo che possa meglio esplicitare — al di là delle frettolose e, a volte, «elettorali» prese di posizione — quale debba essere, a mio parere, un fondamento di un serio approccio al non facile tema del regionalismo, non fine a se stesso ma utile allo sviluppo del Paese.
Utilizzo a questo scopo alcuni estratti della mia prefazione al mio libro: «Territori. L’ autogoverno locale che fa bene al Paese», uscito nel novembre 2015: «Non che l’opera di governo manchi, o non sia essa stessa il più grande investimento sul futuro, ma oggi abbiamo bisogno di riflettere e di discutere sulla direzione da prendere, sulle idee che devono governare il cambiamento. Sento, da un lato, che la mia esperienza di governo, pur piccola e localizzata, può essere utile all’opera di ricostruzione del Paese in cui tutti siamo impegnati; dall’altro che il Trentino non è mai stato, né vorrà mai essere, un’isola e che intende mettere a disposizione tanto o poco che sia, quello che di positivo fino a oggi ha sperimentato. Certo siamo cittadini del mondo, siamo in Europa e condividiamo le sue incertezze; siamo in Italia, con i suoi problemi e con le sue speranze, ma siamo anche presenti e partecipi della vita dei territori, la cellula base di ogni ipotesi di sviluppo. Tanti territori, profondamente diversi tra loro, ma capaci di fare insieme quella magica combinazione che è la vera anima del Paese. Ed è quindi di territori che ho voluto parlare (...) Oggi l’Italia è attraversata da onde differenti. C’è una grande tendenza, che molti, forse semplicisticamente, definiscono di populismo, dentro cui si agitano tante cose, alcune con qualche ragione di fondo, altre che non sono assolutamente accettabili per il nostro grado di civiltà. Decodificare queste onde e tradurle in scelte politiche coerenti e praticabili è un’operazione estremamente impegnativa e delicata che richiede riflessione e confronto. La difficolta è scegliere, tra le molte possibili, la strada giusta e trovare i modi più opportuni per percorrerla. Vincendo le resistenze. C’è una tendenza alla resistenza verso il nuovo, alla difesa, talvolta ostentata, di rendite di posizione, di privilegi finanziari, burocratici, politici, di categoria, che combattono aspramente, punto per punto, ogni politica di cambiamento (...). Negli ultimi anni la crisi finanziaria dello Stato nazionale e alcune gravi esperienze di malgoverno delle Regioni hanno portato a una volontà dichiarata e praticata (governi ultimo Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) di ricentralizzare la spesa pubblica, volontà che definisco tranquillamente anti-storica, ma di cui bisogna comprendere radici e ragioni per poterla contrastare meglio».
Un’operazione possibile facendo chiarezza rispetto all’insieme caotico, approssimativo e fuorviante di informazioni che sono state prodotte intorno alle Regioni, in particolare a quelle speciali. È necessario essere chiari e rompere un luogo comune a cui si ricorre per giustificare le ricorrenti spinte centralistiche. La responsabilità dei problemi che oggi deve affrontare il Paese non è tanto delle Regioni ma soprattutto dello Stato, che controlla quasi per intero il prelievo tributario e il 70% della spesa sui singoli territori. Lo dimostra anche il fatto che i servizi pubblici gestiti direttamente dallo Stato, con uguali modalità e procedure, nelle composite realtà del Paese producano risultati profondamente diversi. Che si tratti di scuola statale o di tribunali, i divari regionali si ripetono, anche a fronte di una spesa che è maggiore dove si fa peggio. Oltre a ciò, l’uniformità implicita nel modello organizzativo e gestionale dei servizi statali impedisce alle realtà più dinamiche di innovare e sperimentare, creando così le premesse per una generale evoluzione del sistema pubblico.
Il secondo luogo comune è che le Regioni, in particolare quelle a statuto speciale, sono tutte uguali. Non è così. Ci sono Regioni che esercitano molte competenze e altre molte meno; alcune hanno già contribuito al risanamento dello Stato e altre non lo hanno fatto; alcune hanno trainato lo sviluppo dei loro territori e altre sembrano aver ottenuto l’effetto contrario. Parlare di Regioni come se fossero una realtà omogenea è quindi sbagliato e fuorviante. Nei conteggi che vanno per la maggiore, poi, si stilano graduatorie che non tengono conto di fattori essenziali e distintivi come la spesa pubblica regionalizzata — cioè tutto quello che lo Stato spende su un determinato territorio non solo attraverso i bilanci dei soggetti locali ma anche in via diretta —; il rapporto con la ricchezza prodotta localmente, per cui più alto è il gettito fiscale più consistenti sono le risorse finanziarie a disposizione; la struttura orografica, dove il costo pro capite è inversamente proporzionale alla dimensione territoriale e alla configurazione montana del territorio. La Sardegna, per esempio, ha una superficie più grande di quella della Lombardia, ma solo un sesto dei suoi abitanti, circostanza non indifferente nella computazione dei costi infrastrutturali e di gestione dei servizi.
Quello che ci vuole è pertanto un diverso e più appropriato rapporto tra centro e periferie, dove il primo tenda a riconoscere e a portare a sintesi le molte diversità regionali, e le seconde si rendano disponibili a un grande investimento sia in termini di responsabilità sia di rigore ed efficienza nelle gestioni.
Bisogna entrare in un terreno nuovo dove i pregiudizi e le rendite di posizione non ci siano più per nessuno: né per il centro, né per le periferie. Un terreno che richiama tutti all’essenza della politica, ossia la capacità di interpretare la volontà popolare, tenendo conto dei suoi interessi contingenti e di quelli futuri. Volontà popolare che a me piace chiamare volontà delle «comunità», con le loro differenze e straordinarie ricchezze.
Se accettiamo tale impostazione, per rigenerare l’Italia non si può che partire dai territori, dalla loro vitalità e dalla loro responsabilità. È la mia convinzione più profonda. Non si pensi però a una qualche forma, che sarebbe oltretutto tardiva, di sindacalismo territoriale. Tutt’altro: penso che oggi efficienza e modernità si coniughino meglio con la piena responsabilità delle comunità. In maniera però rigorosa, perché tra le incrostazioni che dobbiamo rimuovere c’è anche l’irresponsabilità di chi sa solo spendere, sapendo che pagherà qualcun altro, di un altro territorio, o di un’altra generazione.