«Laurea e lavoro, c’è un’asimmetria»
Ventura e la «classe disagiata»: «Le aspettative non soddisfatte generano frustrazione»
«La classe disagiata è quel ceto medio abbastanza agiato da potersi permettere di investire nell’istruzione universitaria dei figli, sperando che ciò possa condurli a un buon lavoro, ma che si trova poi di fronte a una realtà economica in cui una laurea non sempre ha il valore che aveva in passato». Così Raffaele Alberto Ventura spiega l'asimmetria tra laurea e lavoro nel suo best seller «Teoria della classe disagiata».
TRENTO Siamo tutti prigionieri di «un grande sogno borghese», che ci spinge a spendere anni e risorse per un’istruzione sempre più elevata, seguendo «un’illusione che ci fa desiderare sempre un po’ più del dovuto e ci condanna a vivere da insoddisfatti»? Da questa domanda e dalla propria esperienza personale, simile a quella di tanti giovani italiani e non solo, Raffaele Alberto Ventura si è mosso per analizzare come una certa idea di istruzione, e le aspettative che ne derivano, sia in conflitto con la realtà del mondo del lavoro e generi frustrazione non solo economica, ma soprattutto esistenziale. Ne è risultato Teoria della classe disagiata (Minimum fax), libro che Ventura presenterà a Trento il 2 novembre, in un dibattito con il professor Claudio Giunta organizzato dal Club Alpbach Trentino alla “Bookique”.
Chi rientra oggi, consapevolmente o meno, nella «classe disagiata»?
La classe disagiata è quel ceto medio abbastanza agiato da potersi permettere di investire nell’istruzione universitaria dei figli, sperando che ciò possa condurli a un buon lavoro, ma che si trova poi di fronte a una realtà economica in cui una laurea non sempre ha il valore che aveva in passato. La cultura è un capitale che si accumula spendendo risorse: o un giovane ha alle spalle una famiglia che può permetterselo a prescindere dal risultato oppure, se il ritorno non arriva, nasce un problema non solo economico, ma anche esistenziale. Io ho studiato filosofia, ma come molti mi sono poi trovato impreparato al salto nel mondo lavorativo. Non trovare un’occupazione all’altezza delle aspettative, o trovarla in un settore che non ha a che fare con la propria specializzazione, porta agli alti tassi di stress e depressione diffusi tra i cosiddetti “over-educated”, i “sovra-istruiti».
Qualcuno direbbe “stay hungry, stay foolish”. Di Steve jobs, però, ce n’è uno ogni generazione, mentre i laureati a cui si promette di poter realizzare i propri sogni sono centinaia di migliaia ogni anno. Chi ha creato l’illusione che produce la classe disagiata?
«Credo che una parte della colpa vada data al discorso, paradossale ma molto diffuso, che presenta la cultura come un valore in sé, da perseguire indipendentemente dalla sua convertibilità lavorativa, ma al tempo stesso chiede che ogni laureato possa avere un impiego all’altezza degli studi fatti. A questa incomprensione di fondo si aggiunge il fatto che, specialmente in Italia, il sistema universitario del «3+2» è stato pensato e implementato male, portando ad avere lauree triennali che di fatto non contano nulla, considerate insufficienti per accedere alle mansioni più qualificate. La scelta della laurea magistrale diventa allora obbligata, ma ciò porta le famiglie a consumare altre risorse e gli studenti a ritardare sempre più l’ingresso nel mondo del lavoro. Ci troviamo quindi davanti a coorti di laureati con alti livelli di specializzazione che competono per un numero limitato di mansioni all’altezza degli studi fatti. Da un lato un pugno di lavori di concetto, di rappresentanza e difficilmente meccanizzabili, dall’altro una marea di impieghi a bassa qualifica, poco appaganti e sempre più a rischio di venire robotizzati».
Vista l’inflazione dei titoli universitari, si potrebbe concludere che la soluzione sia diminuire il numero di laureati. Eppure la percentuale di giovani italiani che proseguono gli studi dopo la maturità è bassa: fra i 25-34enni dei Paesi Ocse, in media il 43% completa l’istruzione universitaria; in Italia siamo al 25%, al penultimo posto.
«Il paradosso per cui abbiamo allo stesso tempo pochi laureati e laureati troppo qualificati si spiega tornando a considerare le particolarità del sistema “3+2”. Chi finisce una triennale oggi in Italia non ha le capacità necessarie a lavorare in una posizione diciamo di medio livello, che in molti paesi esteri inve- ce è lo sbocco naturale alla fine del primo ciclo universitario. Se faccio il paragone con la Francia, dove vivo con la mia famiglia, noto che qui il percorso che lega lauree triennali e lavoro è più chiaro. Certo, i giovani possono sentirsi a volte “instradati” verso uno specifico sbocco professionale, ma credo sia comunque meglio della situazione italiana di caos e disinformazione, in cui diventa difficile fare scelte consapevoli.
È utopico invece chiedere di costruire un’economia basata sul terziario avanzato, capace di assorbire il maggior numero di laureati indipendentemente dal loro livello di specializzazione?
«Sarebbe la soluzione ideale, senza dubbio. Ogni economia avanzata dovrebbe cercare di posizionarsi dal lato giusto della catena produttiva, dove si crea la parte più importante del valore aggiunto. La domanda è se sia possibile dedicarsi esclusivamente al terziario. Se guardiamo l’esempio statunitense, sembrerebbe di no. Non vorrei suonare troppo pessimista: credo sia possibile creare un’economia capace di valorizzare l’istruzione universitaria, ma servono una visione, una strategia e una volontà politica. Cose che, purtroppo, all’Italia di oggi ancora mancano».