Corriere del Trentino

Il ricordo che strugge e salva

La festa dei santi e dei defunti si celebra fin dal tempo degli antichi Celti È un modo per non lasciare i cari all’oblio. Ma la memoria fa soffrire

- Di Brunamaria Dal Lago Veneri

Arriva il momento in cui le parole strangolan­o. Viene una gran voglia di buttarle fuori o di cacciarle a forza in gola e di fare silenzio. Ma il guaio è che senza parole ci si sente come legno morto, fiume senz’acqua, cielo senza nuvole.

Così mi sento sempre quando il calendario ci presenta le feste dei Santi e dei Morti che vivo come una immersione nella coscienza della fine e della necessità del ricordo.

Il calendario ci propone — dicevo — ma mi contraddic­o subito. Non mi servono date stabilite per avere sempre vicini a me i miei cari, quelli che ci sono e quelli che non mi appaiono più in corpo, ma sempre in presenza.

Certo anch’io celebro la festa del ricordo ornando i giardini dei morti, i cimiteri, di lumi, candele, fiori, e sopporto la gente, le macchine, il rumore, le cerimonie, gli incontri, le chiacchier­e. Sarà anche una tradiziona­le forma consolator­ia, quella del trovarsi e celebrare assieme, e io alla tradizione ci credo. Mi piace addirittur­a la tradizione celtica che festeggia questi giorni come fine di un anno, compendio di quanto è stato e proiezione nel futuro basandoci sulle nostre radici, i nostri morti, per creare piante nuove. Un festa, quella celtica che va dal 31 ottobre all’11 di novembre, San Martino.

Cosa voglio dire? Forse mi piacerebbe­ro cerimonie funebri mitologich­e come quella degli eroi greci? «Per diciassett­e giorni e diciassett­e notti si piangono ininterrot­tamente. La diciottesi­ma notte arde la salma assieme a pecore e buoi, cremata nelle veste bianca degli dei, bagnata di unguenti e di miele e poi si raccolgono le ossa nel vino e si chiudono in un’anfora, perché una qualche memoria degli umori della vita rimanga». Mi piacerebbe piangere il giorno dei Morti ricordarli in vita, farli in qualche modo tornare attraverso il racconto, celebrarli come santi, almeno della piccola e personale sfera privata. Quando ci si trova a festeggiar­e i morti, sempre si racconta.

Ecco anch’io continuo a narrare. C’è una narrazione giusta per costituire un rapporto fra passato, i nostri morti, il presente, noi, il futuro, i nostri figli e nipoti?

Ricordare o meglio rievocare, vuol dire eludere la potenza distruttri­ce del tempo? Cos’è questo richiamare alla memoria? È un tentativo per non abbandonar­si all’oblio?

Certamente no o forse non solo, ma mi piace pensare e rievocare la tradizione che narra che le notti fra il 31 ottobre e i primi di novembre i morti ritornino alle loro case e per questo lascio un posticino caldo nel letto e metto, fuori della finestra un cibo rituale e lascio accesa una luce. Usi celtici, memorie di antichi Samuin, riti di passaggio. Festa dei morti, quindi.

Non solo i nostri, privati, ferite, mutilazion­i del nostro essere al mondo, ma tutti i morti.

È una cosa così fragile la vita. Dura un istante eppure niente vale la vita, questa mappa di noi e dei nostri che si è fatta carne e sangue e poi scompare in polvere e in terra, in questo giardino di lapidi con nomi e fotografie.

Stelle filanti del nostro cielo come i miei nonni, gli zii, mia madre, mio padre, il mio compagno Roland, gli amici, Marcella, che ho conosciuto o Elena, Alexander, indimentic­abile. Ma poi i morti delle guerre (altro che pace o vittoria), i morti dei terremoti,i morti sul lavoro, le donne uccise per rabbia, per noia o per svago, solo per parlare degli ultimi. Domani saranno dimenticat­i? Ombre delle idee, memorie.

Ponti fra il ricordo e l’oblio. Il due novembre è l’anniversar­io della morte di Pierpaolo Pasolini. Una morte per tutte. 2 novembre 1975. Un sacco di tempo, è vero. Ricordo ancora la notizia appresa per radio. Siamo rimasti in molti increduli, basiti.

E poi ci è piombato addosso un mare di teorie, accuse, pareri, schieramen­ti. Imperante lo schifo, lo sdegno, la rabbia e poi, piano piano, il silenzio. Uno schifo appiccicos­o, moralista, perverso. Uno sdegno profondo. La consapevol­ezza di una perdita irrimediab­ile.

Una rabbia triste, fredda, rancorosa come le sere di novembre. Un silenzio pesante, colpevole, cialtrone. Il silenzio che copre tutto, sempre. Il silenzio che copre la rabbia, lo spreco, lo schifo, lo sdegno, tutto.

Certo si trattava di una rabbia letteraria, cartacea, ma eroica, una lyssa, come quella di Pasolini che ha fatto crescere la violenza contro di lui fino alla barbarie. Una rabbia che lo ha fatto dire «o esprimersi e morire o essere inespressi e immortali».

Domani è un altro giorno. Ci saranno altri morti e ce li dimentiche­remo? È proprio vero: il morto giace e il vivo, forse per continuare a vivere, si dà pace.

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