ROSATELLUM, LE RICADUTE SONO POSITIVE
In primavera voteremo dunque con il cosiddetto «Rosatellum». In sostanza, un terzo circa di deputati e senatori sarà eletto con collegi uninominali (vale a dire che ogni partito o coalizione di partiti può presentare un solo candidato e viene eletto quello che prende almeno un voto più degli altri) e due terzi circa invece saranno eletti con il sistema proporzionale.
Non è previsto nessun premio di maggioranza o di governabilità: lo spirito «maggioritario» si esprime solamente nel terzo degli eletti che usciranno dai collegi uninominali, nei quali è prevista la possibilità di coalizioni tra due o più liste che si presentano divise sul proporzionale ma che nei collegi uninominali sostengono il medesimo candidato.
Molte ombre e alcune luci. La più importante delle quali è che — comunque — una legge elettorale adesso c’è, è stata approvata dal parlamento con una larga e traversale maggioranza, pur con la forzatura impropria del voto di fiducia. Un ennesimo naufragio a pochi mesi dalle elezioni sarebbe stato disastroso per le istituzioni e per la loro già fragile credibilità. Tra le luci, senz’altro va annoverata la disciplina prevista per la nostra regione. Lo sciagurato voto segreto del giugno scorso (con il quale, su iniziativa della premiata coppia Biancofiore-Fraccaro, il nostro sistema fondato sui collegi e sull’equilibrio tra gruppi linguistici era stato demolito e omologato al resto del Paese) è stato superato pur non totalmente, ma in modo accettabile: da noi sono di più gli eletti nei collegi uninominali rispetto a quelli previsti nella quota proporzionale (sei contro cinque alla Camera e sei contro uno al Senato).
Tra le ombre, certamente è giusto segnalare la netta prevalenza della spinta proporzionale senza correttivi di governabilità e le liste bloccate, anche se più corte rispetto al «Porcellum» con il quale abbiamo votato nel 2013 e con i nomi dei candidati stampati sulla scheda, in modo da renderli evidenti all’elettore. In ogni caso, salvo improbabilissimi pronunciamenti della Corte Costituzionale, sarà con un simile meccanismo che occorrerà fare i conti.
Il problema vero, però, non stava e non sta nella legge elettorale, bensì nella crisi della rappresentanza politica, che risulta del tutto evidente se si osserva la dinamica dell’offerta politica (i partiti, chi più chi meno, faticano tutti non poco a percepire la propria ragione sociale) ma emerge anche dall’incertezza e dalla vaporosità della domanda, cioè delle attese dei cittadini.
D’altra parte, non esiste una «società tutta buona» contro una «politica tutta cattiva». Tale suggestione, che costituisce l’essenza di ogni deriva populista, non coglie le crepe profonde che negli ultimi decenni si sono aperte nella società civile italiana e nella sua costituzione materiale.
Occorrerebbe invece lavorare molto per la formazione civica e sociale dei cittadini, in modo da tornare a declinare — a fronte dei cambiamenti epocali del nostro tempo — quei valori di comunità e di responsabilità attorno ai quali il Paese ha saputo costruire in passato le sue fortune democratiche e anche il suo stesso benessere economico e sociale. Ma stiamo procedendo in direzione affatto contraria e la politica rischia di cercare una sua nuova legittimazione rincorrendo l’esaltazione dei diritti individualistici, senza avere il coraggio e la visione di indicare mete di bene comune.
Le prossime elezioni nazionali saranno fortemente condizionate da una crisi culturale prima che politica. E tuttavia bisogna che il campo democratico — per quanto oggi piuttosto disastrato — compia ogni sforzo per marcare una differenza e indicare almeno qualche prospettiva non di brevissimo momento. Nella nostra regione la coalizione del centrosinistra autonomista — se ritrova lo spirito giusto — può dire qualcosa di importante, non solo per l’autonomia.