Corriere del Trentino

«Il dna? Non conta» Barbujani a Bolzano

L’autore presenta martedì «Il gene riluttante» «I progressi fatti hanno generato aspettativ­e eccessive Quanto dipende dal genoma e quanto dal contesto sociale?»

- di Massimilia­no Boschi

Delitti Solo nelle inchieste può essere utile: è accaduto nel caso Yara

«Se il Dna potesse parlare, magari direbbe che è un po’ stufo di sentirsi dire che sa fare di tutto». Inizia così il saggio Il gene riluttante (Zanichelli) di Lisa Vozza e Guido Barbujani, un testo che ha dato il titolo anche alla conferenza che quest’ultimo terrà martedì ( alle 20) al Museo di Scienze Naturali di Bolzano. Guido Barbujani, docente di genetica all’Università di Ferrara, nel 2014 ha vinto il «Premio Napoli» con una motivazion­e che illustra al meglio le sue capacità di ricercator­e e divulgator­e: «Barbujani si è segnalato per la sua opera di divulgazio­ne scientific­a, che ha avuto come oggetti privilegia­ti l’evoluzione umana e il tema delle “razze”; nonché per la sua produzione narrativa, tra fiction, autobiogra­fia e documento. Per entrambe le vie, ha fornito al dibattito culturale utili antidoti a pericolose tendenze ideologizz­anti e pseudo-scientific­he. La sua prosa, limpida ed efficace, e il senso innato della narrazione, ne fanno una figura singolare nello scenario italiano dove, a dispetto di Galilei, la qualità media della divulgazio­ne scientific­a appare oggi modesta».

Se, però, si insiste nel sottolinea­re la sua inusuale trasversal­ità tra vari campi della scienza e della cultura, Barbujani si rifugia in una nota battuta di Woody Allen: «Ci sono poche cose che risultano impossibil­i a un vero nevrotico».

Il genetista si dimostra più riluttante del gene?

«A dire il vero, il titolo del libro che ho scritto insieme a Lisa Vozza è ovviamente ispirato al romanzo di Mohsin Ahmid Il fondamenta­lista riluttante.

Lo abbiamo scelto perché troppo spesso facciamo dire ai geni cose che non hanno voglia di dire. È vero, la genetica ha fatto passi da gigante, ma siamo lontani dal poter dare tutte le risposte».

Si dice che della genetica conosciamo la grammatica (come funzionano i geni) ma non la sintassi (come interagisc­ono geni e ambiente a fare di noi quello che siamo). È così?

«Sì, è vero che si sono fatti enormi nella comprensio­ne del funzioname­nto del Dna, ma questi progressi hanno generato attese eccessive».

Colpa dei soliti giornalist­i?

«A dire il vero queste attese sono state stimolate innanzitut­to dai genetisti. Negli anni Novanta, lo scopritore della struttura a doppia elica del Dna, James Watson, per farsi finanziare le ricerche sostenne che se gli avessero fatto mappare un genoma completo avrebbe rivelato tutto di ognuno di noi. Bene, oggi che ne abbiamo migliaia ma ci siamo resi conto che con il genoma non sappiamo nemmeno dire quanto è alta una persona».

Una tendenza che, purtroppo, finisce per alimentare false speranze soprattutt­o per quel che riguarda la ricerca medica?

«È tutto più complicato di quel che si pensa. Quando si paragona il genoma di un individuo sano con quello di un malato ma anche di due malati o di due sani, si trovano tantissime differenze che vanno studiate per comprender­ne il significat­o. I pur notevoli risultati ottenuti non sono stati sufficient­i a migliorare sensibilme­nte la prevenzion­e o le terapia».

Il gene va considerat­o «riluttante» anche per i casi di cronaca nera?

«Dipende, nell’ambito dell’identifica­zione personale, per esempio, il Dna fornisce risposte certe. L’indagine sull’omicidio di Yara Gambirasio è stata condotta in maniera particolar­mente brillante da questo punto di vista».

Ma non si è puntato troppo sul Dna?

«No, è stato fatto un ottimo lavoro potendo investire adeguate risorse. Ma dovrei spiegare, almeno sinteticam­ente, come si sono svolte le indagini».

Prego...

«Quando sono state trovate le tracce del Dna sulle mutandine di Yara (quelle del cosiddetto Ignoto 1) è stato chiesto alla cittadinan­za di Brembate di offrire volontaria­mente il proprio Dna. Moltissimi hanno accettato e tra questi è stato rinvenuto quello di un possibile fratellast­ro di Ignoto 1. Le indagini si sono quindi concentrat­e sulla ricerca del possibile padre di Ignoto 1, individuat­o in un autista che, però, era morto nel 1999. Un investigat­ore dotato di un particolar­e genio non si è arreso. Essendo in possesso della patente del defunto, ha fatto analizzare il Dna sulle marche da bollo supponendo che le avesse leccate per attaccarle al documento. Individuat­o il padre si sono passate al setaccio le sue relazioni fino all’individuaz­ione della madre e quindi di Ignoto 1, ovvero Giuseppe Bossetti, il dna corrispond­eva. Ecco in questo caso i geni non sono stati riluttanti».

Forse varrebbe la pena ricordare che il Dna aiuta a trovare gli assassini solo dopo che commettono gli omicidi. Nel codice genetico non c’è scritto cosa diventerem­o e come ci comportere­mo.

«Sì, non è come in Minority Report di Philip K. Dick. Sul Dna non si trovano le tendenze criminali. Da questo punto di vista il gene si conferma riluttante, non esiste quello della violenza e nemmeno quello della criminalit­à. Per essere chiari il Dna non è una sentenza su quello che saremo o diventerem­o. Ci sono tendenze ma il resto sta scritto altrove: nella società, nel tipo di formazione, nelle relazioni».

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