Sanità, una riorganizzazione che non funziona
Un vento non benevolo sta soffiando sulla sanità della nostra provincia. Gli eventi da ricordare sono la confusa, almeno fino a ora, riorganizzazione aziendale dell’assessore Luca Zeni e il disorientamento a seguire, la disgrazia derivante dal caso di morte per malaria in ospedale con deleterie ricadute mediatiche, la diatriba tra case di cura private apparsa sui giornali locali con reciproco scambio di accuse, e da ultimo le dichiarazioni preoccupate di Carlo Tenni, presidente della Consulta diocesana per la pastorale della salute, sulla perdita di motivazione del personale e sull’ipotizzata tendenza alla privatizzazione del servizio sanitario pubblico ((Vita trentina del 12 novembre scorso). A parte la sfortunata e triste vicenda della malaria, un filo rosso collega le altre questioni sul tappeto: l’assenza di una chiara politica sanitaria come verosimile primum movens dell’incertezza allignante nell’azienda.
In tale clima, tanto nebuloso quanto in parte privo di oggettive motivazioni, l’assessore provinciale ha ritenuto di attivare una rivoluzione organizzativa poco spiegata, poco capita e ancora dopo tanti mesi non contestualizzata, che ormai da tempo si insinua a fianco della paure congenite delle nostre comunità nei confronti della sanità, paure spesso derivanti da allarmi più basati su percezioni che non su fatti: il timore che l’ospedale della propria valle sia depotenziato o addirittura chiuso, che altre valli siano privilegiate, che Rovereto venga depotenziata a favore di Trento e viceversa, che la chiusura di un reparto sia l’anticamera della chiusura totale. In un simile contesto si inseriscono le osservazioni di Carlo Tenni, che vede già, con una certa esagerazione, la sanità pubblica sostituita da una privatizzazione selvaggia.
Certo, oggi nel nostro Paese la credibilità dei politici è a livelli bassi, ma questo stato di cose deve essere di stimolo affinché la classe politica si sforzi per dare certezze alle comunità locali, per fare scelte alle volte anche non gradite, partendo comunque dal rispetto degli impegni assunti, se credibili e sostenibili. Le certezze possono discendere solo da una seria, ragionata e sostenibile programmazione sanitaria.
Ora, a parte il caos derivante dalla riorganizzazione in atto — passivamente accettata da una direzione aziendale che di certo comincia a cogliere che la luna di miele è terminata — non è dato percepire una strategia definita da parte dell’assessorato, impegnato a gestire singoli casi con interventi privi di una visione sistemica del sistema salute. Programmazione della rete dei servizi, chiarezza sul da farsi, indirizzi certi sono necessari a fianco di una razionale programmazione degli interventi edilizi, scomparsi da lungo tempo nelle nebbie. La visione d’insieme di quanto c’è da fare è strategica sia per i tempi di realizzazione degli interventi edilizi, sia al fine di evitare, ad esempio, di avere strutture sovradimensionate e sottoutilizzate come il Nuovo Villa Rosa.
Ovunque è difficile per la politica fare programmi, in quanto i programmi, soprattutto se razionali, creano anche nemici e possono ridurre il consenso, ma sono necessari per un uso mirato delle risorse a solo vantaggio della comunità. In questo panorama la percezione d’incertezza e demotivazione che si coglie nell’Azienda sanitaria dev’essere risolta.
La decantata riorganizzazione a cosa dovrà servire una volta resa operativa? E sarà confermata?
Come è già stato evidenziato, le riorganizzazioni si fanno se si riscontra un modello inefficiente, ritenendo che soltanto un cambiamento forte possa ridare spinta al raggiungimento di obiettivi ben definiti. Gli incontri promossi dall’alta dirigenza per fare chiarezza hanno sortito ben scarsi effetti e le incertezze restano se non sarà chiaro il riassetto tanto pubblicizzato nei media quanto irrealizzato nei fatti: si è in mezzo al guado.
Due osservazioni per chiudere. La riorganizzazione aziendale ha uno sponsor naturale, rappresentato dagli infermieri che si sentono finalmente sottratti al «giogo medico» e forse anche l’assessore pensa di trarre vantaggio da scelte organizzative che sembrano collegarsi più a logiche elettorali che a efficienza e qualità delle cure. Tutto ciò va detto partendo dalla massima considerazione della categoria infermieristica e in particolare delle caposala che sono — se efficienti — le colonne dei reparti. Ciò non toglie che la guida dei reparti debba essere collaborativa tra ambiti professionali, ma unica e affidata al direttore medico. A onore del vero, peraltro, devo riconoscere che già i Romani avevano due consoli, i quali comandavano a giorni alterni, tuttavia non so se sia una buona ragione per tale opzione.
In siffatto bailamme è venuta a mancare la mediazione tecnica tra politica e realtà assistenziale, mediazione in carico alla azienda sanitaria, ove l’alta dirigenza pare incapace di suggerire soluzioni più aderenti a efficienza ed efficacia gestionale, con conseguente perdita di autorevolezza, base portante della gestione.
La seconda osservazione, collegata al filo rosso dell’incertezza: dubito che sia in atto una privatizzazione strisciante e comunque non ritengo aprioristicamente che il privato funzioni male, ma pretendo come cittadino che le risorse pubbliche siano spese a fronte di un servizio adeguato e di qualità. I controlli sulla appropriatezza dei ricoveri e sulla qualità della assistenza sono stati fatti?