Piovani al Sociale «La musica supera tutte le frontiere»
L’intervista Piovani a Trento il 31 dicembre con il suo racconto in note «Se i padri d’Europa avessero fatto più orchestre oggi saremmo più uniti»
Si fa presto a dire Oscar. Eppure sarà proprio il vincitore 1999 per le musiche di La vita
è bella di Roberto Benigni il protagonista del 31 dicembre a Trento. Un appuntamento imperdibile. Nicola Piovani, ospite del Centro servizi S. Chiara, sarà al teatro Sociale dalle 21.30 con La musica è
pericolosa, racconto musicale (tecnicamente un «concertato») narrato dagli strumenti in scena: pianoforte, contrabbasso, percussioni, sassofono, clarinetto, chitarra, violoncello e fisarmonica.
Maestro, auguri. Anche un premio Oscar fa un bilancio di fine anno?
«I bilanci di fine anno sono un esercizio per provare a mettere ordine nella nostra vita e per aiutarci a fare progetti e propositi che, in buona parte, disattenderemo. Non mi sottraggo a questo rituale, anche scaramanticamente».
Quali sono stati durante le prove gli scogli più perigliosi?
«La maggiore fatica era riuscire a trovare con precisione quale fosse il ritmo più efficace nell’alternare il racconto parlato al racconto “suonato”».
Parlano i singoli strumenti: lei li ama tutti allo stesso modo? «Nel cinema ho un debole per il clarinetto, uno strumento di grande bellezza elastica, capace di cantare con passione, e di impallarsi nello stesso breve tratto musicale. Ma in teatro è diverso: i magnifici polistrumentisti che suonano con me danno al concerto una tale bellezza e
ricchezza timbrica da cancellare qualsiasi gerarchia».
Tra parole e musica esiste un rapporto talvolta facile, ma spesso scivoloso.
«È il campo di indagine teatrale che più mi affascina. Coniugare sul palco suoni e parole, prosa e versi, canto e parlato, è una zona molto da sperimentare, nella quale c’è tanto da scoprire. Ho iniziato a lavorarci insieme con Vincenzo Cerami nel Novanta, ma ancora c’è una lunga strada da battere che ci può regalare nuove sorprese». Lei è un solitario o un fau-
tore dell’équipe?
«C’è una parte di lavoro che è fatalmente solitaria: il tempo della scrittura, la riflessione nel silenzio della scrivania, l’isolamento della composizione, la carta pentagrammata davanti e la matita in mano. Ma poi c’è la concertazione, la
messa in scena, la registrazione: sono momenti collettivi in cui se l’équipe non è in sintonia il lavoro si ferma»
Il suo concerto trentino sarà non lontano dal confine del Brennero. La musica è davvero in grado di superare sempre le frontiere?
«Forse sempre no. Ma certo, se i padri che hanno fondato l’Europa unita avessero pensato un po’ di più all’unità culturale, musicale, se avessero pensato a formare più orchestre europee, forse saremmo qualche passo avanti. Nelle orchestre giovanili “miste” si vede un giovane violinista giapponese che, su un rallentato, guarda attentamente ll collega africano - di cui probabilmente ignora la lingua per tenere bene il tempo insieme. O il flautista israeliano tutto teso a ben intonarsi col collega palestinese. La musica per superare le frontiere non può fare tutto, ma qualcosa sì». Ricorda la sua prima direzione d’orchestra?
«Eccome se la ricordo! Correva l’anno 1970, avevo 22 anni, e avevo ancora tanto da imparare. Ora, tecnicamente è diverso, controllo di più il gesto: ma il batticuore è lo stesso».