UN AMORE ESSENZIALE
Il più privilegiato fra i punti di osservazione dal quale osservare la secolarizzazione dell’Occidente è forse il presepe. Nella guerra della comunicazione, Babbo Natale sembra avere di sicuro la meglio sulla capanna di Betlemme: non crea discriminazioni, è dunque politically correct, si addice ai bambini di ogni razza e colore, porta regali, canta, balla e avvisa che sta per giungere con renne e slittone impugnando uno smartphone di ultima generazione. È contornato da un rutilare di colori fantasmagorico: arriva e riparte in una scia di stelline d’oro che lasciano incantati gli occhi.
Questo mulinare di immagini e suoni ha fatto sbiadire, prima, e forse perdere del tutto, poi, il perché della festa: il suo punto focale. Da un’ipotetica indagine statistica risulterebbe, con ogni probabilità, che solo una minoranza ormai ricollega l’idea del Natale a una nascita, alla nascita di un Dio bambino. Giganteggiano gli alberi di Natale mentre l’area di urbanizzazione domestica riservata ai presepi diminuisce progressivamente; meglio quelli piccoli, quasi tascabili: sono carini, li metti dove vuoi, ci stanno ovunque. Giusto un segno: costano poi poco, dai cinesi ne trovi di ogni tipo. E poi, oltre a sapere un po’ da vecchio, come tutte quelle statuine e quei muschi affastellati a ogni Epifania in scatole consunte, Gesù bambino non è più di moda, è politically uncorrect: discrimina e nasce in una famiglia tradizionale, e per di più non porta neanche i regali. Così la festa diventa autoreferenziale e non sappiamo poi più, alla fine, chi sia il festeggiato. Lo abbiamo perduto di vista nel nostro correre, sempre più frenetico. Correre da dove, per dove, verso cosa? Tale pensiero — che normalmente ci spaventa e ci assedia — trovava nel Natale un qualche antidoto. È come se, a Natale, ci sentissimo meno soli e indifesi: che ci si creda o no, è una bella compagnia il pensiero che Dio abbia deciso di venire al mondo piccino, umile, malato di freddo, come tutti noi. È il freddo delle stelle, infatti, quello da cui proveniamo: ed è quello stesso buio misterioso e trapuntato di luci lontane il luogo dove torneremo. Qualcosa che — a dispetto della nostra scienza e della nostra capacità tecnica — non riusciamo nemmeno a misurare: e che spaura. Eppure, a Natale, o almeno così ci pareva da bimbi, la polvere di stelle di cui siamo impastati si accende, si fa luce che rischiara la notte e illumina la via; e scioglie il ghiaccio delle stelle.
Adifferenza di altre fedi, dunque, Gesù è uomo e Dio, è cielo e terra che si abbracciano: è ciò che i teologi chiamano dogma dell’Incarnazione, il cui significato sta tutto in questa nascita. Ecco perché a Natale sembrava più chiaro anche a noi bambini come tutto si celasse in quel miracolo inspiegabile dell’essere venuti alla luce. La nascita e l’infanzia non sono un punto di partenza poi lasciato dietro di sé, ma sono, viceversa, elementi vitali nella trama esistenziale di ognuno di noi: quelli che forgiano i nostri tratti distintivi, essenziali, irrinunciabili. È ciò che, al fondo, evoca con assoluta, grandiosa, semplicità la pagina del Libro che narra del Natale: «Mentre si trovavano là, giunse per lei il tempo di partorire e diede alla luce il suo figlio primogenito. Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’albergo». Niente di più. L’immagine è di un’essenzialità scarna, c’è solo lo stretto indispensabile: i gesti misurati di una puerpera provata dal parto, assistita unicamente — fa presumere il testo — da un marito la cui presenza, proprio perché determinante, non ha bisogno di apparire. Immaginiamo solo che Giuseppe, un poco goffo e impacciato come tutti gli uomini con i neonati, lo abbia preso in braccio. Ma emana un calore, da una simile scena, straordinario, tale da contagiare i pastori che erano lì intorno: perché attinge la propria nuda verità dall’umanità più autentica, più profonda. Quella che parla di un amore essenziale, senza luci e fronzoli: che sa accogliere senza parlare. E del quale, secolarizzati o no, non possiamo fare a meno.