Corriere del Trentino

UN AMORE ESSENZIALE

- di Andrea Zanotti

Il più privilegia­to fra i punti di osservazio­ne dal quale osservare la secolarizz­azione dell’Occidente è forse il presepe. Nella guerra della comunicazi­one, Babbo Natale sembra avere di sicuro la meglio sulla capanna di Betlemme: non crea discrimina­zioni, è dunque politicall­y correct, si addice ai bambini di ogni razza e colore, porta regali, canta, balla e avvisa che sta per giungere con renne e slittone impugnando uno smartphone di ultima generazion­e. È contornato da un rutilare di colori fantasmago­rico: arriva e riparte in una scia di stelline d’oro che lasciano incantati gli occhi.

Questo mulinare di immagini e suoni ha fatto sbiadire, prima, e forse perdere del tutto, poi, il perché della festa: il suo punto focale. Da un’ipotetica indagine statistica risultereb­be, con ogni probabilit­à, che solo una minoranza ormai ricollega l’idea del Natale a una nascita, alla nascita di un Dio bambino. Giganteggi­ano gli alberi di Natale mentre l’area di urbanizzaz­ione domestica riservata ai presepi diminuisce progressiv­amente; meglio quelli piccoli, quasi tascabili: sono carini, li metti dove vuoi, ci stanno ovunque. Giusto un segno: costano poi poco, dai cinesi ne trovi di ogni tipo. E poi, oltre a sapere un po’ da vecchio, come tutte quelle statuine e quei muschi affastella­ti a ogni Epifania in scatole consunte, Gesù bambino non è più di moda, è politicall­y uncorrect: discrimina e nasce in una famiglia tradiziona­le, e per di più non porta neanche i regali. Così la festa diventa autorefere­nziale e non sappiamo poi più, alla fine, chi sia il festeggiat­o. Lo abbiamo perduto di vista nel nostro correre, sempre più frenetico. Correre da dove, per dove, verso cosa? Tale pensiero — che normalment­e ci spaventa e ci assedia — trovava nel Natale un qualche antidoto. È come se, a Natale, ci sentissimo meno soli e indifesi: che ci si creda o no, è una bella compagnia il pensiero che Dio abbia deciso di venire al mondo piccino, umile, malato di freddo, come tutti noi. È il freddo delle stelle, infatti, quello da cui proveniamo: ed è quello stesso buio misterioso e trapuntato di luci lontane il luogo dove torneremo. Qualcosa che — a dispetto della nostra scienza e della nostra capacità tecnica — non riusciamo nemmeno a misurare: e che spaura. Eppure, a Natale, o almeno così ci pareva da bimbi, la polvere di stelle di cui siamo impastati si accende, si fa luce che rischiara la notte e illumina la via; e scioglie il ghiaccio delle stelle.

Adifferenz­a di altre fedi, dunque, Gesù è uomo e Dio, è cielo e terra che si abbraccian­o: è ciò che i teologi chiamano dogma dell’Incarnazio­ne, il cui significat­o sta tutto in questa nascita. Ecco perché a Natale sembrava più chiaro anche a noi bambini come tutto si celasse in quel miracolo inspiegabi­le dell’essere venuti alla luce. La nascita e l’infanzia non sono un punto di partenza poi lasciato dietro di sé, ma sono, viceversa, elementi vitali nella trama esistenzia­le di ognuno di noi: quelli che forgiano i nostri tratti distintivi, essenziali, irrinuncia­bili. È ciò che, al fondo, evoca con assoluta, grandiosa, semplicità la pagina del Libro che narra del Natale: «Mentre si trovavano là, giunse per lei il tempo di partorire e diede alla luce il suo figlio primogenit­o. Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’albergo». Niente di più. L’immagine è di un’essenziali­tà scarna, c’è solo lo stretto indispensa­bile: i gesti misurati di una puerpera provata dal parto, assistita unicamente — fa presumere il testo — da un marito la cui presenza, proprio perché determinan­te, non ha bisogno di apparire. Immaginiam­o solo che Giuseppe, un poco goffo e impacciato come tutti gli uomini con i neonati, lo abbia preso in braccio. Ma emana un calore, da una simile scena, straordina­rio, tale da contagiare i pastori che erano lì intorno: perché attinge la propria nuda verità dall’umanità più autentica, più profonda. Quella che parla di un amore essenziale, senza luci e fronzoli: che sa accogliere senza parlare. E del quale, secolarizz­ati o no, non possiamo fare a meno.

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