«Federcoop si occupi di qualità del lavoro»
Ianeselli: «Coesione sociale, Renzi sbaglia scavalcando il sindacato»
Cita Bruno Trentin, Franco Ianeselli, quando parla di «utopia realistica», quando con lo scomparso segretario generale della Cgil ricorda che «non ci si può rassegnare all’idea che la vita di un uomo cominci quando smette di lavorare». Eppure, il «non-luogo» dell’utopia è proprio la dimensione che viene in mente quando si evoca la «qualità del lavoro» nell’attuale contesto del mercato del lavoro, quando si invoca la «coesione sociale» consapevoli che «il rancore nei confronti degli stranieri serpeggia perfino nell’organizzazione (la Cgil, ndr)».
Segretario, le imminenti elezioni politiche prospettano un quadro ondeggiante tra l’instabilità e l’immobilismo.
«E, aggiungo, una fase in cui una parte consistente della politica ritiene di poter fare a meno dell’intermediazione dei corpi intermedi in generale, del sindacato in particolare. Un convinzione esplicita, ad esempio, nel M5S, ma che abbiamo visto fare capolino anche in chi pensa di potere da solo rappresentare la nazione».
A Renzi non pare essere riuscito questo tentativo di rapportarsi direttamente con il popolo.
«Pare proprio di no. Pensare che il rapporto diretto leader-paese potesse produrre più coesione sociale e minore rancore è stato un errore. Il nostro è un paese che deve in parte tornare a credere nella democrazia. Il sindacato, al pari della galassia di associazioni che articolano la nostra società, è un luogo in cui si impara a venire a sintesi delle aspirazioni e del disagio dell’altro. Questa è una straordinaria palestra di democrazia in un mondo in cui gli “odiatori”, gli hater, sono riusciti addirittura a eleggere un presidente degli Stati Uniti che si esprime come loro a colpi di tweet».
Il rancore è la categoria cui viene da molti ricondotta la nascita di Liberi e Uguali. Non è un po’ riduttivo?
«Dipende da cosa intendiamo per rancore. Quello personale sorto tra esponenti di Pd e di Leu esula dalle mie competenze. C’è poi il rancore che cova un’ampia categoria di persone, i “perdenti della globalizzazione”. Sono operai tradizionali che perdono il lavoro, sono persone con un grado di istruzione elevato che non trovano sbocchi occupazionali congrui. Dare loro rappresentanza è un compito ineludibile, mentre mi pare che si tenda a dare risposta all’uno, chi ce la fa, o all’altro, chi non ce la fa, senza offrire una prospettiva comune. Per questo, consapevole di sconfinare in un campo non mio, mi permetto di chiedere alla politica locale se sia davvero necessario riprodurre anche in Trentino, con Leu, una divisione frutto di etichette nazionali più che di una reale frattura della società trentina. Intendiamoci: il Trentino è pienamente parte delle dinamiche nazionali, europee e mondiali, ma questo non significa non provare a elaborare a modo nostro le dinamiche di cui siamo parte».
Restando al tema del rancore, tra i destinatari preferiti vi sono indubbiamente gli stranieri. Il sindacato può avere un ruolo in questo?
«In questi anni di segreteria ho vissuto momenti belli e altri meno belli, ma l’unica volta in cui sono stato oggetto di insulti è stato quando abbiamo organizzato la manifestazione contro gli attentati ai centri di accoglienza. Vorrei non fosse così, ma tra gli autori vi erano anche persone vicine all’organizzazione, seppure non dirigenti. Dobbiamo essere consapevoli e agire di conseguenza: non con i moniti nei direttivi, che poco producono, ma andando a parlare direttamente con queste persone, una ad una».
Lei lamenta una politica insofferente verso il ruolo del sindacato. Eppure, anche se in pochi lo ricordano, le critiche all’immobilismo della Cgil arrivarono da Massimo D’Alema molti anni prima di quelle di Matteo Renzi. Non è magari anche un po’ colpa vostra se faticate ad essere un interlocutore?
«I problemi del sindacato italiano sono gli stessi di quelli del sindacato europeo, entrambi alle prese con una nuova economia globalizzata. Come ci insegna Bruno Trentin nei suoi Diari, il problema che abbiamo di fronte supera anche il tema della precarizzazione selvaggia. Il venire meno dell’operaio massa ci impone una riflessione sul rapporto tra lavoro e conoscenza, tra lavoro e libertà. Non ci si può rassegnare all’idea che la vita di un uomo cominci quando smette di lavorare. Eppure, anche chi non è schiacciato dalla precarizzazione del lavoro oggi spesso è chiamato a svolgere funzioni in cui di suo c’è poco e nulla. È di qualità del lavoro che dobbiamo parlare noi, la politica, gli imprenditori».
A livello provinciale, voi avete lamentato un eccesso di compromesso. Non siete mai contenti?
«Va evidenziata la forte differenza col livello nazionale: anche se i contatti sono spesso poco sistematici, sarebbe scorretto dire che la Provincia non ci ascolta. Ma se l’intermediazione e la concertazione sono importanti, il compromesso non risolve i compiti di un’amministrazione, che deve esercitarlo all’interno di indirizzi forti che decide di darsi. Facciamo un esempio: non si può dire che l’attuale amministrazione abbia abbandonato l’università e la ricerca, ma nemmeno si può dire che abbia mostrato di crederci veramente nel fatto, per noi fondamentale, che il Trentino è competitivo solo se sviluppa un’economia fondata sulla conoscenza».
Il centrosinistra, dopo qualche fibrillazione, sembra intenzionato a confermare il proprio assetto di coalizione. Teme una lotta di tipo personale sulla leadership?
«A costo di apparire banale, dico che occorre davvero concentrarsi sui programmi, su quegli indirizzi forti di cui parlavo prima».
E il dibattito sui candidati alle politiche che effetto le fa?
«Sempre cercando di non sconfinare dal mio ruolo, mi permetto di suggerire che il distacco dalla politica cui assistiamo pure in Trentino si cura anche rinnovando la rappresentanza politica».
La politica trentina sembra poco interessata alla crisi di uno dei pilastri della propria comunità: la Cooperazione. Anche l’area popolare che, fino a poco tempo fa, si mostrava vicina a via Segantini al limite della contiguità.
«Il tema è cruciale. Fino a poco tempo fa il mantra era “la Cooperazione trentina ha raggiunto l’equilibrio perfetto tra competitività economica e attenzione alle persone”. Evidentemente non era così se una brutta mattina ci siamo svegliati con una Cooperazione che prova a licenziare con modalità peggiori di una multinazionale. Io ammetto che una cooperativa possa avere esuberi di personale. Non ammetto che il sistema cooperativo nel suo complesso possa disinteressarsene senza un di più di responsabilità sociale. Non capisco, tornando a Trentin e alla qualità del lavoro, come la Cooperazione possa disinteressarsi di come si lavora. Perché, se è così, la domanda conseguente è: a cosa serve la Cooperazione?».